In diretta dalla Bulgaria

La Bulgaria vista dal finestrino

Scrivo questo pezzo mentre mi trovo ancora in diretta dalla Bulgaria. Stavolta sono solo, in vacanza, con me c’è solo Simona, niente Gruppi da accompagnare, un viaggio di coppia con lo zaino in spalla! Un Capogruppo che si rispetti, per riposarsi tra un viaggio e l’altro… Per vacanza fa un altro viaggio!

Ed eccomi che siamo qui a viaggiare in un Paese vicino alla nostra Italia, a 2 ore di volo da Roma, eppure così diverso. La prima impressione è quella di trovarsi in un posto che ha subito moltissimo l’influenza sovietica per diversi decenni che ne ha modificato l’architettura, il look della gente e lo stile di vita.

Il cirillico innanzitutto è la prima cosa che noti quando sei qui: ti da subito quell’immagine austera che ti aspettavi di trovare. Il cirillico ti porta in un attimo ben oltre la cortina di ferro. Assomiglia un pò al nostro alfabeto, un pò a quello greco, un pò ha strani segni a noi ignoti, e spesso alcune lettere che sono identiche alle nostre, hanno suoni completamente diversi. Il problema è quando il menù è scritto SOLO in cirillico e il personale non parla una parola di inglese… Ma anche questo fa parte delle regole del gioco del saper viaggiare in modo “romantico” senza grandi programmi, senza enormi aspettative…

Il bello del viaggiare in questo modo è la sensazione di smarrimento, di vuoto, di scoperta che sei “costretto” a fare ogni minuto mentre sei fuori casa, ogni cosa che ti serve sei costretto a chiederla.

Qui in Bulgaria Internet è diffuso quasi ovunque con WIFI gratis, ma non è un servizio costante e soprattutto non è affidabile in alcuni momenti in cui sembrerebbe indispensabile! Sai benissimo di aver sottoscritto per il tuo telefono anche la tariffa (quasi) free per internet ma, al dilà dei costi del tutto sostenibili, approfitti di questa occasione per rinunciare del tutto a questa ciambella di salvataggio informatico: questo è il tuo viaggio nel tempo, in quella vecchia Europa che ancora esiste e quando internet non è disponibile…. Non andrai a cercarlo, imparerai a farne di nuovo a meno, a parlare con la gente.

Fotografare viaggiando

Fotografi in vacanza, e allora riscopri un modo diverso di viaggiare, fatto di chiacchiere a gesti con la persone, e scoprirti incapace di interagire se non con mezzi primitivi di comunicazione: indicare, sorridere, disegnare in aria, fare versi degli animali per spiegare che non mangi maiale o che vuoi il pollo o uno spiedino di agnello!!!!

 

La musica: ne abbiamo sentita tanta nei taxi, nei negozi, negli hotel…. La musica che ascolta la gente da queste parti è completamente ferma agli anni ’80 e non abbiamo sentito un solo brano che fosse più recente di quel periodo. Un fenomeno ci ha invece particolarmente colpiti: a Sofia c’è un locale che si chiama Delta Blues Bar, un angolo perfetto di Mississippi in piena Bulgaria! Una sorpresa per me e Simona che amiamo questo genere, e che lo abbiamo approfondito nel corso di tanti viaggi nel sud degli USA.

Un ristorantino a due passi dal Monastero di Bachkovo, l’arredamento del locale è di sicuro originale e irriverente!!

Così, parlando con il gestore, scopriamo che a Sofia, non si sa per quale ispirazione, ci sono l’almeno 500 musicisti che fanno blues e questo ha creato un indotto di pubblico che viene in questo locale ad ascoltare Blues suonato live tutte le sere. Anche a Plovdiv c’è un bel festival di musica Jazz molto seguito dal pubblico e visto che siamo capitati in città proprio in quei giorni, ne abbiamo immediatamente approfittato per un paio di concerti in un teatro e in un club…

Per un fotografo la Bulgaria è il luogo ideale per fare Street Photography: le donne, nei quartieri periferici che frequentiamo noi, vanno in giro con acconciature esagerate con capelli cotonati stile anni’60, la vecchina che cammina con le buste in mano e il capo coperto dal tipico fazzoletto copricapo annodato sotto al collo, l’omino secco secco con il giubbottone di similpelle che fuma una sigaretta che puzza di cadavere, i ragazzi vestono spesso con tute simil-Adidas e qualcuno azzarda looks di ispirazione più occidentale….

I mercati come sempre sono una vera miniera di stimoli fotografici, di personaggi da fotografare, di persone da incontrare e merci da scoprire. Un Luv, la moneta locale, corrisponde a circa 2 Euro, solo che i prezzi sono bassissimi, al ristorante mangi una cena di gran lusso comprese bevande a non più di 12-15 Euro a persona.

Viaggiando da queste parti, quello che ti puoi aspettare è il poter fotografare le vecchie automobili della Lada che ancora girano scassate nelle strade, le auto qui servono per muoversi, non sono uno status symbol, per cui le tengono finchè sono in grado di camminare.

La Bulgaria non ha cose “famose” da fotografare, ma è proprio questa la sua bellezza: potrai esprimerti tu al meglio tirando fuori i racconti e le sensazioni dei momenti che vivi. Non ci sono palazzi importanti e a livello di architetture tutto si riduce ad alcune chiese e monasteri che sono meravigliosi ma assolutamente sconosciuti al turismo di massa.

In questi monasteri, al dilà della bellezza del luogo stesso, ti colpiranno di nuovo le persone, la loro spiritualità, il loro rapporto con la preghiera: in queste chiese scoprirai  la bellezza della luce che filtra dalle finestre, le atmosfere mistiche dei sacerdoti che celebrano e la gestualità delle mani che accendono le candele…

E l’altra cosa che abbiamo riscoperto è il piacere di viaggiare con i mezzi pubblici, a parte la metropolitana di Sofia, l’esperienza più bella che abbiamo vissuto è il viaggio su un trenino a scartamento ridotto, ma di questo ne parleremo a parte nel prossimo articolo…

BUONA LUCE

Roberto Gabriele

Elegia Romana

Quante immagini offre di sé una città? Quante ne mostra Roma? Infinite, tante quanti sono gli occhi che la guardano, quanti sono i passi che la attraversano…Tra le tante vi proponiamo questa volta la visione di una prima volta, quella di un bambino degli anni quaranta dello scorso secolo. Si tratta di un racconto bellissimo e struggente, pieno di meraviglia e di stupore; una narrazione attenta a cogliere le irripetibili atmosfere di un’epoca storica irritornabile. Ecco dunque questo racconto dal titolo “Elegia romana”, pubblicato nel 2003 da L’argonauta, nel volume “Il giorno dell’ira e altri racconti” di Renato Gabriele.

ELEGIA ROMANA

Racconto: Renato Gabriele

Fotografie: Roberto Gabriele

“Stiamo arrivando, mi aveva detto lo zio, siamo sul binario”. Era stato lungo quel viaggio, avevamo ingoiato il fumo del treno nelle gallerie; sentivo in bocca un sapore di fuliggine. Nello scompartimento s’era formata una nebbia densa, tante le sigarette che gli uomini avevano fumato. Uno, seduto di fronte a me, ne aveva confezionate tante con quelle mani dure, callose. Gli riuscivano male, storte,mezze vuote. Le leccava per incollare i lembi della cartina e, così bagnate di saliva, le fumava con boccate piene strizzando gli occhi e lasciando che il fumo gli uscisse dagli angoli della bocca.

Durante il viaggio ero stato al finestrino a guardare gli alberi e le case sfilare veloci. C’erano autocarri abbandonati sulle strade, qualcuno rovesciato in un fosso. Erano carcasse spoliate di tutto, senza più motore, senza copertoni. Avevano perso ogni cosa, con il tempo avrebbero smontato e portato via anche il resto. Avevo visto un piccolo autoblindo e perfino un aereo che sembrava un giocattolo dimenticato su un prato. “ I segni del conflitto”, aveva detto lo zio, con quel suo parlare preciso. Mi dava brevi ma complete spiegazioni che non ammettevano domande né repliche.

Ad una fermata del treno avevo avuto paura di aver perso lo zio, avevo provato il panico di essere solo, abbandonato. Lo zio, che era sceso per bere alla fontanina della stazione, non era ancora tornato quando il treno si era rimesso in movimento, L’uomo che fumava mi aveva però rassicurato:” Non preoccuparti, vedrai che viene subito…tuo padre, sarà salito in un vagone dietro”. L’avevo visto esitare ma non avevo voluto dirgli che quegli era mio zio, che mio padre era morto. Adesso lo zio era lì, davanti a me, con gli occhi chiusi.

IMG_0713Uno strattone, un rumore di ferraglia, un urto, un sussulto:”Ci siamo, vedrai com’è Roma”, fece lo zio con voce atona, senza enfasi, con la serietà di che propone di assolvere un dovere, un compito. Mi domandai subito se quella di Sassa, da dove ero partito quella mattina, fosse una stazione vera, se potesse chiamarsi una stazione, con le sue aiuole fiorite, lo zampillo, le panchine: tutto al sole, all’aperto, dove a certi intervalli regolari passava un trenino per bambini. Qui a Roma era tutto più scuro. C’erano molti treni allineati, ed erano neri, enormi. A Sassa passava soltanto la littorina, un trenino con un solo vagone, che si annunciava con un rombo come di un tuono che vada spegnendosi, nel silenzio assoluto della valletta.

C’incamminammo tra tutta quella gente vociante che pareva andare verso un’unica direzione comune. Tutti parevano presi da una smania che li accelerava. Trascinavano vecchie valigie di fibra, segnate e graffiate, stracariche, legate con lo spago e con grosse cinghie. Pensai che quella gente non desiderasse, dopo di là, andare in nessun altro luogo. Sembravano arrivati per restare ma continuavano a muoversi in quel posto su itinerari prestabiliti, a volte paralleli, a volte incrociati. Come le formiche. Non sapevo se io fossi arrivato per restare.

Quattro giorni prima giocavo ancora ai banditi con Nicolino. Ci appostavamo in mezzo al malvone, ai sambuchi, dietro le fratte del biancospino. Poi era arrivata tutta quella gente, che veniva su verso la nostra casa dallo stradone bianco. Erano scesi dalla corriera poco più sotto, a Madonna della Strada. Erano bianchi di pelle, molti di loro portavano gli occhiali. Mi pareva strano, mi ero chiesto per quale motivo tanta gente insieme portasse gli occhiali. Il giorno dopo era stato mio fratello a dirmi che nostro padre era morto, che quelli erano parenti venuti per la sua morte, per il suo funerale. Non conoscevo nessuno di loro, neppure lo zio che mi aveva portato a Roma con sé.

IMG_1522

Ed eccomi qui, arrivato a Roma, tra quella folla frenetica, disordinata. Lo zio aveva portato con sé un incarto con un quadro di mio padre. In treno, un momento che eravamo soli, mi aveva parlato un poco di lui, della sua vita sfortunata. Avevo sentito per la prima volta che la vita di mio padre era stata sfortunata. Non sapevo che una vita potesse essere sfortunata. “Chi di voi sa disegnare, chi ha ripreso da lui?”aveva chiesto lo zio. Io avevo fatto spallucce lasciando cadere la domanda. Lo zio mi rassicurava, con la sua voce paziente. In quei giorni le voci di tutti quelli che erano venuti nella nostra casa avevano un comune accento, che non uniformava però la sostanza della voce. La voce della Bolognese era rimasta una musica per me, come sempre.

IMG_0693Adesso camminavamo in silenzio, io portavo il mio pacco con la biancheria. Sul treno lo zio aveva detto:”Io porto i miei colli, tu porta il tuo pacco.” Non sapevo che cosa fosse un collo ma lo capii quando vidi che lui dava di piglio ai suoi involti. Presi il mio pacco fatto con la carta di giornali e tenuto con lo spago. Molti passeggeri avevano pacchi come il mio.

Camminavamo affiancati, immersi nei nostri pensieri, tra uomini in maniche di camicia, con le maniche arrotolate, tra donne in abiti colorati. Qualcuno portava la giacca sul braccio o appoggiata alle spalle senza infilare le maniche.

Usciti da quella fiumana, aspettammo a lungo alla fermata del tram. Non ne avevo mai veduto uno prima di quella volta. Passava scorrendo pesantemente sui binari, con gente appesa dovunque fosse possibile, all’esterno. Dietro, però, su un rigonfiamento da cui partiva un grosso cavo, c’era solo un ragazzo perché l’appoggio era difficile. Riuscimmo anche noi a salire, impacciati nei nostri colli e restammo in piedi, pigiati da ogni lato.

IMG_1216Scendemmo in un viale di periferia. Qui c’era gente più distesa, una folla ilare il cui vociare si dondolava a momenti sui rami delle acacie e restava talora come improvvisamente fermo nell’aria. Aspiravo profondamente l’odore delle gaggie, che mi riportava celermente al ricordo di Madonna della Strada. Qui però era costruito tutt’intorno, la strada era incassata tra gli alti fabbricati come un fiume tra alte rive scavate. Una strada di Roma era un po’ come una cupa di campagna, solo che al posto delle sponde di terra con gli arbusti penduli c’erano alte sponde di mattoni e steli di fanali. Adesso sentivo l’odore di frittura che usciva denso da una friggitoria. Odori nuovi per me; buono, piacevole quello che annusai passando davanti a un negozio con la scritta Pizzicheria. Dentro c’erano meravigliose torri di tonde scatolette rosse.

Voltammo in una strada morta, buia, dove non passava nessuno. Lo zio mi condusse in una latteria, un posto bianco di infinita tristezza. L’odore qui mi stomacava, detestavo il latte. Al banco c’era un uomo tutto vestito di bianco, aveva un lungo grembiule. Odorava di latte, aveva bianchissime le mani. A servire c’era anche una ragazza con un berrettino bianco a forma di bustina. La ragazza rideva con un militare, mentre gli serviva una coppa di panna. Trangugiai senza fiatare il bicchiere di latte che lo zio mi aveva porto. Mi domandò se ne desiderassi ancora. Risposi “Nz, grazie”. Lo zio mi suggerì di dire no invece di nz. “No, grazie”, feci io.

Elegia romanaIn quel posto di desolante disperazione, in quel limbo albicante ebbi un urto del sangue, un soprassalto di palpiti nella gola:avevo visto mio padre, seduto a uno dei tavoli lungo il muro, mio padre che mangiava un uovo fritto intingendo nel rosso i pezzetti di pane. In quel sepolcro imbiancato e piastrellato.

Riprendemmo il tragitto per la strada morta. Passò una solitaria motocicletta a tutto gas, lasciandosi dietro un penetrante odore di olio bruciato. La strada mi pesava nelle gambe, camminavo in silenzio senza sapere dove fossimo diretti, neppure lo avevo domandato. Affrettavo il passo per uguagliare le falcate dello zio taciturno. M’ero incupito, attristato, sentivo un dolore indefinibile, oscuro. Mi entrava dentro per vie sconosciute, non era il dolore delle sassate di Nicolino. Questo era un disgusto, una nausea. Mi dissi che Roma era quel dolore, il mio spasmo indefinibile.

IMG_1514Eravamo accaldati, camminavamo senza una parola. L’asfalto era molle ed esalava un odore acuto. Le case s’erano fatte rade, finché la strada morta andò a perdersi in un luogo aperto, buio, da cui si vedevano lontani fanali. Arrivammo sotto un caseggiato immenso, altissimo, una enorme scatola grigia che s’innalzava da un terrapieno in mezzo a sterri, al centro di una radura di sterpaglia, dove c’erano cumuli di detriti disseminati qua e là. Ai margini nereggiava l’imponente torre di tubi di un gasometro e, sotto, la sagoma a denti di sega di un tetto di fabbrica dalla tozza ciminiera.

Salimmo per una scala che mi parve interminabile, fino alla cima del caseggiato, là dove c’era l’appartamento dello zio. Lì dentro mi sentivo soffocare, lo spazio mi si chiudeva intorno. La zia scambiò brevi parole con lo zio. Mi prepararono una branda nella camera da pranzo e mi mandarono a letto. Ma non potei dormire. Guardavo l’ombra listata della persiana. Noi a casa non avevamo persiane ma imposte e tra queste passavano spiragli di luce, lame in tralice che dividevano il buio della stanza, quando nei pomeriggi di caldura , mia madre ci obbligava ad andare a letto.

Mi alzai e mi misi alla finestra. L’altezza mi sembrava vertiginosa, non ero mai stato così in alto. Guardavo l’abisso della radura,laggiù. Scrutavo il cielo. Le stelle brillavano pallide,sbiadite. Lassù arrivava un indistinto rumore, come un sommesso grugnito. Sentivo una radio, da basso. Una voce falso-flautata cantava:”Vecchia Romaaa, sotto la lunaa, non canti piùùùù…

Da “Il Giorno dell’ira e altri racconti”di Renato Gabriele, L’Argonauta Editore, 2003

 

IMG_0694

Ritornerò a Innisfree

Tanti sono i motivi per amare un luogo ma a volte ne basta uno soltanto e così, del resto, accade anche per le persone. Per innamorarsi di una donna potrebbe bastare invaghirsi di un particolare, che so: la voce, il modo di ravviarsi i capelli, di camminare, il modo di ridere o di cantare… Tutti elementi o addirittura frammenti della donna-archetipo che ognuno si porta nella testa. Non era forse accaduto così per Andreas, il protagonista de “Il treno era in orario” di Heirich Boll? Egli, disteso ferito al margine di una strada in Francia, durante la seconda guerra mondiale, si era innamorato dello sguardo di una donna, sì aveva conosciuto il più vero e profondo amore in una frazione di secondo, specchiandosi negli occhi di una donna che non aveva più rivista.

unuomotranquilloSe dovessi ridir le ragioni del mio amore per l’Irlanda, farei presto a elencarle. Dico subito che non ho mai approfondito gli avvenimenti storici del Novecento in quell’amato Paese, trovandoli in verità ingarbugliati e soprattutto capaci di distogliermi appunto dall’amore per quell’archetipo-Irlanda che mi ero formato nel cervello. Del resto, mi dico, accade anche così per coloro che amano l’Italia, non stanno a guardar tanto per il sottile alla nostra storia, specialmente a quella recente!
Quanto alla mia passione per la terra irlandese, essa è incominciata con “Quiet man” di John Ford, “Un uomo tranquillo”, il film con John Wayne e Maureen O’Hara. L’avevo visto all’età di dieci anni e fin dalla prima volta mi aveva affascinato, a pensarci bene, per la forza dei sentimenti che tutti i personaggi esprimevano. Sarà stata forse la mia troppo precoce orfanezza di padre a farmi ravvisare nella gagliarda personalità di John Wayne un modello di un uomo protettivo, un tipo buono per me, una sorta di padre ideale, chissà! Fatto sta che quella pellicola mi si era stampata indelebilmente nella mente offrendomi il primissimo spunto di amor d’Irlanda. Dopo di allora mi è capitato di rivedere quel film in televisione e soprattutto, con l’avvento delle videocassette, di riguardarlo un’infinità di volte, sempre aumentando i motivi di interesse. Una fissazione? Può darsi! Potrei raccontare scena per scena, ad iniziar dall’arrivo del treno e dall’annuncio del capotreno:-Castletown! Potrei dire della curiosità, che anima tutti coloro che sono nella stazione, di sapere chi sia quello straniero che è sceso dal vagone, potrei descrivere tante scene, per finire con il racconto della grande scazzottata finale che non rappresenta il culmine di una inimicizia ma, direi, l’inizio di una generale pacificazione.

Adesso l’intero film mi detta una serie di motivi di apprezzamento, ad iniziare dalla bella musica che accompagna la vicenda, seguitando con l’aspra bellezza dei luoghi e soprattutto con l’incanto del verde, con l’assorta bellezza di quella verdità che non è soltanto un colore ma direi piuttosto un concetto, tanti sono i toni affluenti, tante le sfumature che vanno a comporre quell’entità che siamo soliti designare come “il verde”. Proprio questo, il verde, è il cuore dell’Irlanda, così come da tutti è riconosciuto. E possibile allora che un unico film abbia determinato in me una tanto amorevole inclinazione? Indubbiamente siamo davanti a un’opera d’arte, e non è questa la capacità sublime di ogni lavoro che possa definirsi in quel modo.

jamesjoyce“Un uomo tranquillo” è un’opera di poesia, di poesia degli affetti ma contiene non effimeri brani di epos. Sean Torton-John Wayne ritorna a Innisfree, la sua patria elettiva, dopo un tratto della sua vita vissuta in America. Ritorna al luogo del sogno, sulle rive del lago di Innisfree, di cui nel film abbiamo magnifiche scene di tramonto. La pellicola narra la vicenda di un uomo ma anche di una donna e di tutto un villaggio, che alla fine ci si presenta come un luogo di favola, una sorta di Brigadoon, in cui sia possibile la felicità e questa sia ottenibile con la semplicità del vivere e l’autenticità degli schietti sentimenti.

Avanzando nell’età ho letto, come tutti, qualche scrittore irlandese ma senza dare gran peso al luogo di origine come, ad esempio,nel caso di Samuel Beckett, che per quanto mi riguarda potrebbe essere francese o inglese.
Non così con Seamus Heaney, che per mia buona ventura conoscevo dall’epoca precedente all’assegnazione del Nobel, per averlo incontrato nelle pagine di quella gloriosa rivista che fu “Uomini e Libri”, che tanto ha fatto per far conoscere in Italia la poesia del resto del mondo. Heaney mi appariva come un autentico poeta irlandese, con quel suo ricondursi alla tradizione della sua terra, alle eroiche leggende dell’Irlanda, ai personaggi mitici della sua storia.

Non così soprattutto con James Joyce di cui, per mia maggior ventura, ho letto “Ulisse” nella prima traduzione mai fatta in italiano, quella di Giulio De Angelis, con la consulenza di Glauco Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori, quel bellissimo volume in cofanetto stampato su carta giallo-pallido nella collezione I classici contemporanei stranieri diretta da Giansiro Ferrata per Arnoldo Mondadori Editore. Lessi “Ulisse” nel 1961, quando avevo diciotto anni. Fu un’esperienza incredibile, rappresentò per me una profonda revisione di schemi, soprattutto di quelli discendenti dall’insegnamento scolastico, nella sostanza si tradusse in una operazione analoga a quella che avevo compiuto appena un anno addietro, quando avevo conosciuto la poesia di Federico Garcia Lorca, che d’incanto mi aveva sottratto all’ostaggio carducciano, a tutta la monumentalità della poesia. Scoprivamo il flusso di coscienza, vi ci introduceva J.Joyce. In quel periodo si trattò di un evento fenomenale, basti dire che tutte le stelline del cinema, interrogate su quale fosse il libro preferito, attestavano con sicurezza sospetta e senza interporre alcun tempo di dubbiosa riflessione: – Ulisse, di James Joyce! Non saprei riferire ora quanto allora ci avessi capito, posso dire però che l’Irlandese mi aveva conquistato. Non avrei mai più dimenticato la figura del paffuto Buck Mulligan né il sole che saliva sul grigio mare della baia di Dublino (una dolce madre grigia) mentre lui officiava una scherzosa, blasfema?, pantomima della messa con il bacile di schiuma per radersi. E come dimenticare l’errabonda giornata di Leopold Bloom, il borghesuccio ebreo, e di Stephen Dedalus, l’intellettuale tormentato e problematico? Come scordarsi la figura di Molly, come l’attraversamento di Dublino in quella giornata del 16 giugno del 1904?

Qualunque cosa avessi allora capito del libro, riuscii forse ad afferrare qualche nuovo significato ogni volta, quante?, che lo ebbi riletto. Soltanto dopo lessi le poesie joyciane, soltanto dopo Dedalus e Gente di Dublino. L’Irlanda aveva in Joyce uno scrittore geniale! Il più grande del secolo, dicono. Lui sì che mi appariva un grande irlandese! Fu lui a rinsaldare il mio vincolo con quella verde isola. Lui e William Butler Yeats. Di quest’ultimo, per chiudere il cerchio con Innisfree, di cui ho parlato all’inizio riferendomi al ritorno di Sean Torton-John Waine, voglio citare soltanto i meravigliosi versi de L’isola del lago d’Innisfree, nella traduzione di Roberto Sanesi (Mondadori):

YeatsIo voglio alzarmi ora, e voglio andare,andare ad Innisfree,
E costruire là una capannuccia fatta d’argilla e vimini:
Nove filari a fave voglio averci,e un alveare,
E vivere da solo nella radura dove ronza l’ape.

E un po’ di pace avrò, ché pace viene lenta
Fluendo stilla a stilla dai veli del mattino, dove i grilli
Cantano: e mezzanotte è tutta un luccicare, ed il meriggio brilla
Come di porpora, e l’ali dei fanelli ricolmano la sera.

Io voglio alzarmi ora, e voglio andare, perché la notte e il giorno
Odo l’acqua del lago sciabordare presso la riva con un suono lieve;
E mentre mi soffermo per la strada, sui marciapiedi grigi,
Nell’intimo del cuore ecco la sento.

PER SAPERNE DI PIU’

Parti con noi, vieni a scoprire i luoghi descritti in questo bellissimo Articolo di Renato Gabriele Partiremo per l’Irlanda dal 2 al 12 agosto 2013 con un Viaggio Fotografico adatto a tutti: Fotografi incalliti e Appassionati alle prime armi.

Contattaci Richiedi informazioni



    * campi obbligatori