Nel corso della storia del Medio Oriente, il popolo curdo si è differenziato per il coraggio e l’onore dei suoi guerrieri. Per questo motivo ha acquisito una posizione di rilievo nella regione.
Questo ha comportato che i re, i sultani e i califfati di quel tempo prendessero di mira e utilizzassero i curdi per proteggere e sviluppare i loro confini e stabilizzare l’entità dei loro imperi.
Del resto, sono stati spesso esiliati e costretti ad emigrare, con molti esempi negli imperi ottomano e iraniano.
Quattro secoli fa, dopo la guerra caldea e la sconfitta dei Safavi contro gli ottomani, i curdi furono gradualmente e con la forza sfollati.
Più di 50.000 famiglie del Khurasan Kurmanji si diressero verso i confini orientali dell’Iran per proteggere i confini dagli uzbeki che avrebbero poi occupato l’area.
Dopo la fine delle guerre, i curdi sfollati sono rimasti bloccati in quei confini e non hanno potuto tornare nel loro territorio. Da allora i loro discendenti vivono nel nord dell’Iran e vicino al confine del Turkmenistan.
Un popolo in transizione
In questo progetto artistico, studierò alcune delle conseguenze di questo esodo forzato imposto ad alcune famiglie curde da Safavi in Iran. È per me motivo di riflessione costatare che durante questi secoli di migrazione forzata, sebbene molte delle loro tradizioni siano cambiate, si parli ancora curdo e kurmanji. I loro vestiti sono cambiati in un modo che non assomiglia a quello curdo, un misto di abbigliamento turco e abbigliamento persiano.
In generale, vivono una vita instabile e immigrata, molti di loro sono impegnati nell’allevamento. Questi curdi ancora non si considerano padroni di nessun luogo e hanno una vita semplice e difficile, che è sicuramente il risultato della separazione dalla loro patria.
A mio parere, questo problema merita di essere indagato e affrontato, quindi è fondamentale esaminarlo di più e renderlo uno dei miei progetti.
Ho ora dedicato questa collezione di opere d’arte a questo argomento che è parte di un progetto incompleto sempre più ampio. Questo sarà un tentativo di presentare e dimostrare le sofferenze e i dolori di queste famiglie curde e gli effetti di questo esodo sulla loro cultura, lingua e tradizioni.
Questo racconto di viaggio è stato selezionato come Finalista tra i candidati di Travel Tales Award 2021. L’Autore Mario Cucchi ci parla del Popolo Saharawi che vive nel deserto del Sahara in una terra indefinita tra Marocco e Algeria. Una situazione di estrema povertà per una minoranza etnica che non viene accettata da nessuno ed è costretta a vivere lontana da tutti in territori disseminati di mine. Leggi questo articolo e infine scrivi le tue impressioni qui in fondo all’articolo.
Che ne sarà del popolo Saharawi costretto, ad un forzato esilio in una delle zone più inospitali del pianeta?
•Un muro lungo più di 2.700 chilometri nel deserto africano.
•10 milioni di mine.
•Una guerra di 15 anni che si è conclusa ma un conflitto che ancora non ha fine.
•Un referendum per l’indipendenza richiesto dall’Onu che non è mai stato fatto.
•E un popolo che vive da più di 45 anni nei campi profughi.
Il Progetto:
E’ la storia dell’ultima colonia africana, quella del Sahara occidentale, conosciuta come ex Sahara spagnolo e ora occupata dal Marocco.
Sarà la gioia di poter tornare nella loro terra che leggiamo nella speranza dei bambini, oppure continuerà la totale indifferenza della comunità internazionale che vediamo nella rassegnazione degli anziani? Il rischio è che la giustificata rabbia dei giovani porti al suicidio di una nuova guerra.
Infine il progetto, organizzato in dittici, vuole sottolineare i contrasti, a volte magnifici, più spesso terribili, che il popolo Saharawi vive.
Ferite delle Famiglie Kurde
Il dolore dei Kurdi:
Alla fine del 2019, inizio a viaggiare per le città e i villaggi Kurdi documentando i sacrifici dei peshmerga curdi nella lotta per reprimere l’ISIS.
Il progetto mi ha portato nelle province del Kurdistan iracheno a parlare con diverse centinaia di Peshmerga, scattando ritratti intimi dei combattenti feriti, delle loro famiglie e documentando sia le storie della battaglia che le loro continue lotte per navigare nella vita post-conflitto.
Attraverso il lavoro ho trovato storie di immensa sofferenza. Combattenti che hanno imbracciato le armi, non perché fossero obbligati a farlo, ma perché era giusto ed era quello che si doveva fare.
La Storia:
Questi uomini, spesso combattendo fianco a fianco con fratelli, zii, cugini, padri e figli, sapevano che era in gioco la libertà e la sopravvivenza del loro popolo.
Mentre raccontavano le storie di aver visto la famiglia e gli amici uccisi davanti a loro, e di battaglie a cui non si aspettavano di sopravvivere, piangevano contemporaneamente per le perdite e per l’orgoglio di ciò che i loro compagni avevano fatto.
Quasi tutti gli uomini hanno mostrato gravi lesioni fisiche. Braccia, gambe e occhi persi. Corpi così crivellati di ferite da proiettili e schegge che il semplice movimento creava un dolore tremolante.
Il ritorno a casa:
Questi uomini mostravano anche i segni del pesante fardello dei traumi mentali, del disturbo da stress post-traumatico e dei ricordi che non li avrebbero abbandonati. Nonostante tutto quello che hanno sofferto, hanno spesso detto che sarebbero tornati di nuovo alla lotta se mai fossero stati chiamati a farlo. Lo farebbero per i loro figli, per le loro famiglie, per la loro gente e per il resto del mondo.
Tragicamente, la loro sofferenza non finisce con il ritorno a casa poichè lì gli uomini affrontano nuove sfide, come ottenere arti protesici, cure continue e devono provvedere alle loro famiglie nonostante le lesioni debilitanti e altro ancora.
Inoltre è questo il momento in cui si chiedono se darebbero tutto per aiutare a proteggere il mondo, se il mondo li aiuterà o li dimenticherà ora che hanno riposto le loro armi.
Infine spero che, attraverso questo lavoro di esplorazione delle questioni umanitarie di conflitto e postbellico, il mondo possa capire meglio ciò che i Kurdi, la loro terra e le loro famiglie hanno subito e con loro, di fatto, tutto il resto del mondo.
Questo luogo è il Fortino 52 “Borek” ed è stato costruito a metà ‘800 dagli Austriaci, poi è stato rifortificato dai Tedeschi e dai Polacchi…. Insomma una storia legata a guerre e dominazioni, nella sofferta cultura polacca.
Abbiamo conosciuto Cracovia visitandola lentamente, scoprendola passo per passo in 10 lunghi giorni in cui ne abbiamo apprezzato le bellezze, ma anche molti aspetti meno noti. E’ il caso di questo fortino militare abbandonato che si trova poco fuori città. Di sicuro lontanissimo da qualunque itinerario turistico ma non privo di interessi storici.
Le impressioni:
La cosa che ci ha sconvolti è non tanto e non solo la possenza delle mura del fortino militare, quanto, in particolar modo, la natura che pian piano sta riappropriandosi dei suoi spazi . Il tempo sta ricoprendo tutto ciò che dall’uomo era stato costruito per resistere alla forza di altri uomini, ma che è impotente alla forza della natura.
Lentamente la natura avanza, la foresta cresce e copre ciò che l’uomo aveva costruito. La sensazione è quella del tempio di Angkor Wat in Cambogia anche se qui di sacro non c’è nulla.
Il fortino, vista la sua posizione lontana dalla città e il clima freddo di quelle zone, non è abitato da barboni e il silenzio che si sente entrando nei locali nati per proteggere dai bombardamenti è davvero spettrale.
Riferimenti Web:
Puoi trovare altre informazioni sul sito ufficiale: http://www.twierdza.art.pl/ è scritto in polacco, ma se attivi il traduttore di Google sarà tutto più semplice da capire!!!!
Foto e parole di Roberto Gabriele
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