Spiritualità fotografica in Bulgaria

Perchè la Bulgaria? Perchè la Bulgaria è un paese del quale si parla poco, è praticamente sconosciuta al turismo di massa, se ne sa poco a livello sociale e politico e le poche cose che pensiamo di sapere sono dei luoghi comuni privi di fondamento proprio perchè vengono da passaparola privi di conoscenza diretta e di fonti sicure. Anche il nostro immaginario fotografico è praticamente nullo: se cerchiamo di immaginare la Bulgaria il nostro “album dei ricordi” risulta praticamente vuoto.

Per saperne di più e toccare con mano la situazione, siamo andati a visitare questo Paese per fare un sopralluogo per il prossimo Viaggio Fotografico che partirà con un gruppo a luglio.

Partiamo dagli aspetti sociali perchè sono stimolanti anche a livello fotografico. Innanzitutto la Bulgaria non fa parte della zona Euro, e la moneta locale è molto debole per noi, questo significa che la vita costa pochissimo, circa un quarto di quanto costerebbe in Italia lo stesso servizio. Una cena completa al ristorante, birra compresa, costa circa 10,00 Euro, anche meno…

C’è poi il cirillico che aiuta a non comprendere nulla, neanche le scritte sui negozi… E questo, unito al fatto che in pochissimi parlano l’inglese, ci porta a vivere un aspetto del viaggio fatto di incertezze che rendono il viaggio straordinario. Andare in un Paese in cui ti ritrovi a parlare a gesti è sicuramente un privilegio riservato ai pochi fortunati che hanno il piacere di divertirsi in un contesto simile.

Qui si sente ancora fortissimo l’impatto della dominazione del blocco sovietico che ha fortemente influenzato la cultura locale sia negli usi che nei costumi che alla cultura in generale. In strada, guardando come veste la gente, ti rendi conto di quanto tutto questo sia ancora fortemente radicato: le donne con il fazzoletto in testa stile “matrioska”, gli uomini con il giubbotto di pelle e il mocassino in cuoio. Ma non tutto e non tutti sono così, i giovani, infatti, vestono all’occidentale, parlano inglese e hanno un fortissimo desiderio  di crescita e apertura verso nuove idee.

Ma la parte che di più ci è piaciuta fotograficamente parlando è la grande spiritualità locale. La religione più praticata qui è la Cristiana Ortodossa e  capire questo è un aspetto basilare del nostro Viaggio Fotografico e per capire il senso del vivere di queste persone.

Le chiese sono meravigliose: grandi e monumentali, oppure piccole e raccolte, sono sempre stracariche di affreschi dorati di pregio. La gente va in chiesa per pregare: ci siamo soffermati a vedere i loro movimenti, pochi minuti sono sufficienti per accendere una candela, dire una preghiera, riempirsi gli occhi di icone sacre e ricominciare la giornata. A differenza di altre religioni, qui si va in chiesa a qualsiasi ora e in tutti i giorni della settimana. Lo vedi da quelli che entrano in chiesa con le buste di verdura fresca appena comprata al mercato e passano a pregare prima di andare a casa a cucinare il pranzo. Lo vedi dalla chi entra frettolosamente, “compra” una preghiera, una sorta di “indulgenza” di intenzione per i propri cari o per se stessi, e vedi che entrano con il loro foglietto, lo depositano sull’altare dedicato al santo preferito e vanno via pochi istanti dopo. Le preghiere si comprano lasciando un’offerta in una edicola posta vicino all’ingresso, anche questo è un aspetto interessantissimo da fotografare.

Parliamo di fotografia applicata ai dipinti nelle chiese? Si, leggi qui di seguito… Le icone dei santi sono coloratissime e ricoperte di oro che viene usato come campitura cromatica per le aureole, per rifinire i dettagli dei vestiti dei santi, o per disegnare preziosi sfondi. Il gesto ieratico benedicente o il dito che ammonisce completano ed enfatizzano la forza del santo che viene sempre presentato al centro dell’immagine, e non potrebbe che essere così. Non dimentichiamoci, infatti, che il soggetto posto sui “terzi” seguendo le proporzioni della Sezione Aurea acquisisce dinamismo, ma il soggetto al centro enfatizza il concetto di equità, giustizia, divino, ed eterno. La centralità quindi appare come una scelta obbligata in un tale contesto artistico. L’arte sacra italiana, infatti, ha scene di grande dinamismo in cui i santi sono attivi nel proteggere il popolo, nell’uccidere un drago, nel subire un martirio, nell’essere elevati in cielo e nel realizzare miracoli, nell’arte bizantina i personaggi vengono rappresentati solo nella loro magnificienza. Da noi viene usata la sezione aurea, in Bulgaria e nel mondo ortodosso la prospettiva centrale.

Entrare in un monastero da queste parti vuol dire essere fisicamente presenti su un set fotografico di street photography ambientato in un luogo sacro. La gente che prega, i gesti delle mani che accendono le candele e quelle del  sacerdote anziano che fa il gire per andare a spegnerle, il tutto condito da meravigliosi tagli di luce che si insinuano all’interno di chiese buie creando dei contrasti che opportunamente sfruttati sono uno stimolo fortissimo per chi ami questo genere di fotografia. Se cercassimo di ricostruire queste luci,  e queste situazioni di ripresa, sarebbe una impresa praticamente impossibile per noi amanti del reportage, sempre abituati a viaggiare leggeri, dobbiamo coglierle sul momento!

Un ristorantino a due passi dal Monastero di Bachkovo, l’arredamento del locale è di sicuro originale e irriverente!!

La spiritualità però ha sempre degli aspetti umani e anche commerciali che si mescolano ad essa: nei monasteri non mancano i negozietti in cui comprare non solo immagini sacre, ma anche prodotti tipici dell’artigianato locale, giocattoli per intrattenere i bambini che accompagnano i nonni in chiesa, ci sono i ristorantini che con i loro fumi e profumi saturano l’aria delle stradine di accesso e in uno di questi ho trovato, a 10 metri dalla chiesa, accanto ai calendari sacri il manifesto di una birra che veniva pubblicizzata da 6 ragazze a seno nudo!

Che si sia credenti o no, in questi luoghi si sente comunque una grande spiritualità fatta di silenzi profondi, di voci sussurrate, di passi che echeggiano tra i corridoi, di sacerdoti dalle lunghe barbe bianche che benedicono i fedeli. Anche se tutto questo è intangibile e invisibile, raccontarlo in fotografia è possibile, basta prendersi, come facciamo noi quando siamo in viaggio, tutto il tempo necessario per vivere il luogo, comprenderne il senso e lasciarsi prendere dalla bellezza di ciò che sapremo tramutare in immagini fotografiche. Al dilà della bellezza dei luoghi, occorre darsi il tempo per viverli e quindi fotografarli: ed è proprio quello che facciamo noi. Il normale tour turistico tende a segnare con uno scatto i luoghi visitati e a vederne il più possibile, noi, invece, in un Viaggio Fotografico, facciamo della lentezza la nostra forza, preferiamo di gran lunga soffermarci in un posto per ascoltarne le storie e raccontarle con le nostre immagini, ci diamo il tempo di vedere, scoprire e approfondire cose, eventi e persone per rendere completo il senso della storia che abbiamo davanti.

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Nha Terra

La mostra

Voglio parlarvi di questa mostra che ho visto nel 2013 a Parigi, a due passi dal Centre George Pompidou, durante quello che fu il primo Viaggio Fotografico della nostra storia. Il Viaggio si chiamava Parigi in Bianco e Nero e questa esposizione (a sua volta in Bianco e nero) la scoprimmo per puro caso durante le nostre visite in città.

A tre anni di distanza ho conservato il materiale e i riferimenti della mostra e ora che mi ritrovo tutto tra le mani mi torna in mente quella mostra e voglio raccontarvi le mie impressioni avute all’epoca.

L’Africa:

Nha Terra” – era il titolo della mostra di questo fotografo ossia la mia terra tradotto dal portoghese, che è la lingua parlata in Guinea Bissau.

Di mostre bellissime sull’Africa ne ho viste tante, a partire da quelle stranote di Sebastiao Salgado che contengono sempre delle sezioni incredibili sul Continente Nero, fino ad arrivare ai vari vincitori del World Press Photo che in un modo o nell’altro trattano altri temi legati alle migrazioni, a guerre, carestie, sfruttamenti e ogni altro genere di scempi fatti da noi occidentali direttamente o indirettamente ai danni degli Africani.

Nedjima Berder 400_p1050823-bcbdaInvece questa mostra di Nedjima Berder (totalmente sconosciuto nel panorama dei grandi nomi della Fotografia) mi colpì veramente. Mi colpì per il suo allestimento fatto all’interno della chiesa di Saint-Merry, già questo è un elemento di nota che da noi in Italia risulterebbe alquanto bizzarro se non addirittura impensabile. Una bella chiesa che accoglie una bella mostra. Viste le tematiche della mostra, anche la scelta del luogo mi sembra appropriata: un luogo nato per accogliere, che accoglie realmente. Un luogo per tutti che parla degli Ultimi. Al dilà della ritualità sacramentale, assistiamo qui alla condivisione di storie reali che raccontano e divulgano un mondo lontano al quale non siamo estranei.

Le immagini, se vogliamo, non sono neanche particolarmente originali e usano una tecnica che andava di moda forse una quindicina di anni fa: rendere una foto in bianco e nero lasciando solo un colore. Qui assistiamo alla stessa tecnica leggermente rivisitata che invece di un solo colore evidenzia un oggetto (con tutti i suoi colori) della foto nelle mani di uno dei soggetti ritratti.

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Le foto:

La cosa che mi piace è che queste foto raccontano di un’Africa che esiste e che per fortuna pur vivendo con poco, non muore di fame. Le foto sono state scattate nei pressi di un mercato in Guinea Bissau, uno dei paesi più poveri al mondo, molti non sanno neanche esattamente dove collocarlo sul mappamondo, ma ci parlano della dignità di queste persone, e del loro rapporto con la terra e con ciò che mangiano. Sono infatti i ritratti dei contadini, pescatori o allevatori che vanno a vendere i loro prodotti al mercato.

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Le foto non hanno le classiche pose da “Bambino povero che sorride” e neanche quelle altrettanto viste da “Disperato e perseguitato vittima di violenze e torture”. Qui vediamo gente fiera di vivere la propria quotidianità africana. Gente che ostenta la forza della natura della propria terra mostrandoci quanto questa sia generosa verso di loro donando abbondanza a costo zero, anche senza fatica.

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I prodotti vengono sempre raccolti e presentati con una cura estrema, il loro basso valore economico viene invece venduto con la sconcertante semplicità di chi conosce solo la bellezza, la semplicità e la freschezza di quel poco che ha.  E così vengono presentate enormi radici o mazzi di peperoncini, o il frutto di una pesca miracolosa portata in un mercato nel quale anche parlare di “banco” è una parola grossa.

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I fisici di queste persone hanno la forza e l’eleganza di chi vive in armonia con la natura, lontano dai grassi, lontano dagli additivi chimici. E’ chiaro l’intento selettivo del fotografo Nedjima Berder che sceglie con cura i suoi modelli per enfatizzarne la bellezza e la loro perfetta armonia e simbiosi con i luoghi in cui vivono. I suoi set sono fatti in luce ambiente, con uno sfondo bianco che rende asettico un angolo di mondo che sarebbe invece circondato da polvere e fango, perchè il Fotografo nel cercare l’immediatezza dei suoi scatti, riesce ad ottenere queste pose fermando i modelli per pochi secondi davanti al suo set mentre loro passano per andare a vendere le merci. Portarli in uno studio significherebbe perderne la spontaneità e l’innocenza. Fotografarli di sorpresa al volo porterebbe all’ennesimo scatto rubato che abbiamo già visto altre volte.

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Nelle foto di Nedjima Berder  troviamo l’intero ciclo della vita, che sfila davanti alla fotocamera. Taglio quadrato, oggettivo, simmetrico, semplice. I suoi modelli hanno qualsiasi età e vivono il lavoro e la vendita con dignità e non sono mai autocompassionevoli e autocommiserevoli. Nelle immagini di questo fotografo c’è l’inno alla fertilità intesa come riproduzione umana ma anche come frutti della terra. I frutti sono sempre enormi e generosi, colorati e allegri, sono essi stessi un inno alla vita e attraverso essi il fotografo ci trasmette tutta la sua passione per il continente nero.

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Infine la scelta del fondale bianco. Anche questa è funzionale al discorso di semplicità che l’Autore si pone di trasmetterci. Un fondale diverso avrebbe portato lo sguardo dell’osservatore a distrarsi dal soggetto, a contestualizzare con altri riferimenti il senso della storia. Lo sfondo viene qui lasciato di un bianco naturale, con quelle tipiche imperfezioni e rugosità che rendono particolarmente unico e fascinoso il Continente Nero. Il bianco, poi, che si contrappone al nero della pelle, diventa anche una scelta grafica e formale di tutto rispetto. La scelta di non utilizzare Photoshop per scontornare il soggetto è, quindi tutt’altro che casuale per questo cameraman-documentarista che in questa occasione si è prestato alla Fotografia.

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Ho amato particolarmente questa mostra, mi ha parlato di un’Africa che pensavo di conoscere, avendola a mia volta fotografata 15 volte, ma che in realtà non avevo mai visto così bella e raccontata in modo così originale. Mi piace questo lavoro fotografico, mi piace per la sua coerenza, per il suo stile, per la sua potenza visiva seppur ottenuta con mezzi essenziali e di basso costo. L’Africa ci insegna che la vita può scorrere anche in un altro modo, con lentezza, essenzialità, e senza sovrastrutture, questo Continente riesce sempre ad appassionare anche chi la conosce.

L’Africa sa raccontare storie senza parlare e sa far molto rumore anche senza muoversi.

Roberto Gabriele

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