Ferite delle Famiglie Kurde

Il dolore dei Kurdi:

Alla fine del 2019, inizio a viaggiare per le città e i villaggi Kurdi documentando i sacrifici dei peshmerga curdi nella lotta per reprimere l’ISIS.

Kurdi
Salman Farman Saleh was born in 1992 and joined the Peshmerga in 2009.
He was wounded in fighting ISIS in Dec 2014 in Makhmour near Mosul.
As a member of a team that clears IEDs, he was cleaning a field of mines when one exploded near him. The blast took both his legs, one hand, one eye, and an ear.
He has a 100% disability. He has two kids.
This is just one of the more than 10,000 Peshmerga were wounded in the against ISIS.

Il progetto mi ha portato nelle province del Kurdistan iracheno a parlare con diverse centinaia di Peshmerga, scattando ritratti intimi dei combattenti feriti, delle loro famiglie e documentando sia le storie della battaglia che le loro continue lotte per navigare nella vita post-conflitto.

Kurdi
Brahim Ahmad Ebrahim Ghader was born in 1969, he is Peshmarga since 1993 and during this time two-time he got wounded which last time was fighting ISIS in May 2015 and he lost two-leg with and one eye and a lot of shrapnel in his body by the explosion from an IED in Daqoq Area near Kirkuk.
According to Media reporters, more than 10,000 Peshmargah were wounded in the IS war.

Attraverso il lavoro ho trovato storie di immensa sofferenza. Combattenti che hanno imbracciato le armi, non perché fossero obbligati a farlo, ma perché era giusto ed era quello che si doveva fare.

Hazhar Nader Hassan Fathallah, 41, and his wife Sheler Abdullah Hassan, 37 and their baby.
He lost both his legs to an ISIS improvised explosive device in September 2014 in Makhmour in Mosul province. Beyond the loss of limbs, Hazhar’s struggles with PTSD have made him quick to anger. He is plagued by persistent nightmares of being on the battlefield, alone, without ammunition, with ISIS closing in. With physical limitations and PTSD, he recognizes the toll the war has taken, not just on him, but also on his family. Hazhar’s wife helps to support the family both by working outside the home and within it, by tending to her children and husband.

La Storia:

Questi uomini, spesso combattendo fianco a fianco con fratelli, zii, cugini, padri e figli, sapevano che era in gioco la libertà e la sopravvivenza del loro popolo.

Hawar Mohammad Abdullah with his two wives( The old one, Fawziya Kheder born in 1987 and the young one, Zaynab Hossien Ali was born in 2004, Hawar was born in 1985 and has been a Peshmerga since 2000. Hawar was wounded on two separate occasions while fighting ISIS.
In April 2015, in Mara village in Kirkuk province, he was shot. Less than an hour later he was wounded again by an IED (improvised explosive device). It took 6 months of treatment before he would recover, at which point he went back to the frontlines.
The second time Hawar was wounded was in September 2017. While fighting in the village of Abo Mohammad in Kirkuk province he was again wounded by an IED. The explosion left him in a coma for 33 days.
The injuries left Hawar’s body battered and scared. He lost his left ear and left eye and after 5 surgeries he has recovered only 50% of his sight in his right eye. He has also lost his Duodenum and more than 200 pieces of shrapnel remain in his body. Life is hard for Hawar, with three kids he struggles to manage their needs despite receiving 100% disability designation.
With more treatment needed, he hopes the government will help to ensure that he does not have to have his leg amputated.

Mentre raccontavano le storie di aver visto la famiglia e gli amici uccisi davanti a loro, e di battaglie a cui non si aspettavano di sopravvivere, piangevano contemporaneamente per le perdite e per l’orgoglio di ciò che i loro compagni avevano fatto.

Halo Mahmoud Shamorad was born in 1983 and has been a Peshmerga since 2003. Halo has injured a total of eight times in the fighting against ISIS. Each time Halo returned to the frontlines.
After recovering for just 18 days Halo went back to the battle and he remained there until the end of the war with ISIS.
He is married and he has a 75% disability.
This is just one of the more than 10,000 Peshmerga were wounded in the against ISIS.

Quasi tutti gli uomini hanno mostrato gravi lesioni fisiche. Braccia, gambe e occhi persi. Corpi così crivellati di ferite da proiettili e schegge che il semplice movimento creava un dolore tremolante.

Dawoud 12 years old, posing for a photo while he has his father’s artificial feet in hand.
His father, Bahman has been a Peshmerga since 2007 and he was wounded while fighting ISIS in October 2015 in the Qwer area near Mosul province.
During the battle, he was first shot by two enemy bullets and was wounded again when a coalition airstrike came too close.
The severity of his wounded forced doctors to amputate his right leg.

Il ritorno a casa:

Questi uomini mostravano anche i segni del pesante fardello dei traumi mentali, del disturbo da stress post-traumatico e dei ricordi che non li avrebbero abbandonati. Nonostante tutto quello che hanno sofferto, hanno spesso detto che sarebbero tornati di nuovo alla lotta se mai fossero stati chiamati a farlo. Lo farebbero per i loro figli, per le loro famiglie, per la loro gente e per il resto del mondo.

Weshyar Aziz Maghdid born in 1981, he is Peshmarga since 2006 and he got wounded in fighting ISIS at Aug 2014 in the Qwer area in Mosul Governorate by an improvised explosive device (IED) and he lost Left leg and left eye and both ear especially the left one as well as he got a lot of Shrapnel in his body.
He has a 95% disability and he has three kids: Rayan 2011, Rozhin 2015 and Ahmad 2019.
His wife Chenar Khalid Abdullah born 1987.
According to Media reporters, more than 10,000 Peshmargah were wounded in the IS war.

Tragicamente, la loro sofferenza non finisce con il ritorno a casa poichè lì gli uomini affrontano nuove sfide, come ottenere arti protesici, cure continue e devono provvedere alle loro famiglie nonostante le lesioni debilitanti e altro ancora.

Inoltre è questo il momento in cui si chiedono se darebbero tutto per aiutare a proteggere il mondo, se il mondo li aiuterà o li dimenticherà ora che hanno riposto le loro armi.

Eskandar Haidar Omar was born in 1968, he is Peshmarga since 1985 and he got wounded in fighting ISIS in Aug 2014 in the Makhmour area in Mosul Governorate.
He got wounded by IED when they are driving at the frontline and he lost two legs.
A few months later, he returned to the front and continued to fight.
His wife is Sanjaq Omar Mostafa, born in 1960
He has nine kids and he has a 100% disability.
According to Media reporters, more than 10,000 Peshmargah were wounded in the IS war.

Infine spero che, attraverso questo lavoro di esplorazione delle questioni umanitarie di conflitto e postbellico, il mondo possa capire meglio ciò che i Kurdi, la loro terra e le loro famiglie hanno subito e con loro, di fatto, tutto il resto del mondo.


Younes Muhammad

Finalista al Travel Tales Award 2021

 

GUIZHOU: la Cina di Maurizio Trifilidis

Per un viaggio di incontri e foto in Cina, ho scelto il Guizhou. Non avevo interesse per le grandi citta “modernizzate” e neanche per le antichità  più note al turismo. Il Guizhou è una regione rurale, dove  tuttora l’agricoltura costituisce  la base essenziale dell’economia locale. Una regione che vede la presenza di molti piccoli villaggi le cui tradizioni  e abitudini stanno si cambiando ma più lentamente rispetto ad altre parti del paese; villaggi con una popolazione media  anziana, perché anche qui i giovani, come  succede in tutto il mondo,  preferiscono trasferirsi nelle grandi città, alla ricerca di modernità e di lavori diversi da quello nei campi.

Pulizia della cucina – Foto: © Maurizio Triiflidis
Ragazza Etnia Long Horn nella stanza principale – Foto: © Maurizio Trifilidis

Complessivamente, ciò che più mi ha colpito in questi piccoli villaggi, e che rimane ben evidente nelle foto scattate, è stata la facilità del rapporto umano con chiunque abbiamo incontrato.  Superando spesso a gesti o con l’aiuto della guida la barriera della lingua,  quando abbiamo bussato a una porta ci è stato sempre aperto e ho potuto fotografare quanto non mai le persone, sempre ospitali e disponibili, pronti a offrirti una sigaretta, un thè o una parte del loro pranzo, all’interno delle loro abitazioni.

Cina
Fumatori – Foto: © Maurizio Trifilidis

Le prime foto riguardano i Long Form, una tribù dell’etnia Miao, che si caratterizza  per le  vesti colorate e, soprattutto, per i tipici copricapi di legno ricoperto da matasse nere. Vivono in un’area  remota,  lontana dai flussi turistici e mostrano con orgoglio i simboli della propria tradizione.

In attesa – Foto: © Maurizio Trifilidis
Offerta di Zuppa – Foto: © Maurizio Trifilidis

Le altre foto riguardano le attività quotidiane più elementari, spesso legate al pranzo o a un momento di riposo. Ho partecipato anche a un matrimonio, semplice ma incredibilmente rumoroso: di fronte agli sposi un signore accendeva in continuazione  batterie di “miccette”, piccole ma in quantità incredibile, e il cui intenso baccano è percepibile anche solo dal fumo ben visibile nella foto e dall’enorme scatola che ne conteneva solo una parte.

festa di matrimonio – Foto: © Maurizio Trifilidis
Preparazione del pranzo – Foto: © Maurizio Trifilidis

In nessuno dei miei viaggi precedenti avevo fotografato così tanto in interno e soprattutto persone. Un viaggio che ha cambiato il mio modo di fotografare e che ha trasformato ogni scatto, preceduto e seguito sempre da un partecipato scambio umano,  in una testimonianza di comunanza con il soggetto fotografato; ogni foto rappresenta un volto e una storia a sé stante, con  l’unica eccezione dell’ultima, il “villaggio”, necessaria  a mostrare il contesto esterno dei posti visitati.

Cina
Formaggio in tavola – Foto: © Maurizio Trifilidis
Cina
Preparazione del cibo – Foto: © Maurizio Trifilidis
Il pranzo pronto – Foto: © Maurizio Trifilidis
Amore Materno – Foto: © Maurizio Trifilidis
Cina
Il Villaggio – Foto: © Maurizio Trifilidis

Eagle’s Festival

Festival delle Aquile: due giorni ad alta intensità emotiva

Testo e foto di Maurizio Trifilidis

Sui Monti dell’Altaj della Mongolia vivono i pastori dell’etnia kazaca; per motivi tradizionali e culturali profondamente radicati, praticano la caccia con l’aquila, le cui tecniche e conoscenze vengono tramandate con orgoglio tra le diverse generazioni.

Foto: © Maurizio Trifilidis – La piana

La caccia si svolge principalmente nel periodo più freddo, quando la terra è coperta di neve e le greggi richiedono meno attenzione. Un periodo in cui la rigidità del clima impedisce la mobilità dei pastori e le poche occasioni di incontro con altre famiglie possono anche essere a ore di viaggio. Le volpi sono la principale preda dei rapaci; il cacciatore trattiene la pelliccia della preda, che usa per il suo vestiario, e ne lascia la carne al rapace.

Foto: © Maurizio Trifilidis L’arrivo in parata

Alla fine di settembre i pastori si radunano per sfidarsi in una serie di gare di abilità e destrezza in un evento per tutti noto con il Festival delle Aquile.

Il campo di gara si trova in un altopiano a 2.000 metri, in una area priva di qualsivoglia abitazione, lontana dal più vicino centro abitato. I cacciatori arrivano a cavallo anche da zone molto distanti, sfoggiando abbigliamento e accessori tradizionali.

L’aquila, con la testa protetta da un cappuccio di cuoio, è posata sul braccio o su un bastone legato alla sella. Il rapporto tra il cacciatore e il suo rapace è esclusivo e dura molti anni.

Foto: © Maurizio Trifilidis – Il cacciatore e l’aquila

Il Festival è una importante, e quasi unica, occasione d’incontro collettivo, l’ultima prima dell’inverno. Alle gare partecipano cacciatori di diverse età. Parenti e amici assistono con passione e forte coinvolgimento.  Tra i spettatori, gli stranieri sono ben accetti. Vicino al campo di gara, si montano le tende pronte a fornire cibo e ospitalità, facilitando la socializzazione tra i presenti.

Foto: © Maurizio Trifilidis – Preparazione del cibo

Le gare principali consistono proprio in una simulazione dell’azione di caccia: in una il cacciatore lascia la sua aquila su una collina, le toglie il cappuccio e poi, raggiunto un punto distante un centinaio o più di metri, la richiama, la invita a raggiungerlo e a posarsi sul suo braccio.

Foro: © Maurizio Trifilidis – iI lancio della preda

In una altra l’aquila deve catturare una preda, generalmente un pellicciotto di volpe trascinato dal cavallo del suo cacciatore, e posarsi su di essa.

Il cacciatore richiama l’aquila lanciandole una preda e urlando l’ordine con suoni gutturali. Velocità, obbedienza e precisione dell’aquila sono gli elementi di giudizio per vincere.

Foto: © Maurizio Trifilidis – La cattura della preda

I pastori mongoli sono tutti eccellenti cavallerizzi e tra le gare più spettacolari, vi è quella della raccolta da terra di piccoli oggetti da parte di cavalieri lanciati al galoppo: velocità e numero degli oggetti raccolti sono gli elementi di vittoria.

Foto: © Maurizio-Trifilidis – Cavaliere

Alla fine della seconda giornata, i cacciatori, sempre a cavallo, tornano a casa; per loro inizia un lungo periodo di solitudine. Anche io devo tornare: ho l’impressione di esser entrato in un altro secolo, per poi uscirne malvolentieri ma certo più ricco di emozioni e suggestioni.

Maurizio Trifilidis

Maurizio Trifilidis – Il ritorno a casa

Afghanistan, Bamiyan

Partecipo al concorso Travel Tales Award con un racconto sul viaggio in Afghanistan e India, tratti dal mio diario. Le foto sono in parte in bianco e nero, quelle del viaggio tra gli incontri e i torrenti del Badoskan. Quelle dei Buddha e della valle di Band-i-Amir le ho lasciate a colori come dalle originarie diapositive.

Afghanistan – 5 Francesco e la gente afghana

Le fotografie sono in parte del Sottoscritto Francesco Carmignoto e in parte dell’amico Francesco Ghion che ci ha lasciati quattro anni fa. Il suo ricordo mi riempie sempre di affetto e di nostalgia per il tempo passato. Foto e racconti vogliono essere un omaggio alla sua gioia per la vita e alla sua bravura.

Il testo ci vede già arrivati in Afghanistan con le nostre due piccole Fiat e non descrive il lungo percorso, bensì la atmosfera e le impressioni riportate sul diario. 

Introduzione dall’Autore Francesco Carmignoto

Francesco Carmignoto

Afghanistan – 4 Una famiglia in cammino

La valle di Bamiyan

Da Kabul abbiamo deviato per la pista di Charikar, nel Nuristan. Qui il gruppo del Koh-i-Baba domina l’imponente fuga dei “colli” del Badokskan, nell’Hindu Kush, con cime superiori ai 6000 metri. 

Afghanistan – 2 Le nostre magnifiche auto

Un grande silenzio. Solo il torrente Kunduz, ricolmo di acqua cristallina, gorgoglia verso Est, verso l’Amu Darya. Più avanti formerà i sette laghi blu di Band-i-Amir.

Afghanistan – 3 Sulla strada per band-i-Amir
Afghanistan -10 Bamiyan. Il secondo Buddha

Le rovine della “città rossa”, la fortezza che ha resistito a Tamerlano, sono ancora imponenti e dominano il villaggio. La gente della tribù hazara sorride e saluta. Ha i tratti mongoli ereditati dalle orde che Gengis Khan spingeva lungo queste valli al centro dell’Afghanistan alla conquista della Persia.

Da una curva della pista, come da un belvedere, l’alta parete rosata appare traforata a perdita d’occhio. Innumerevoli grotte, rifugio per secoli dei monaci, fanno da cornice a due nicchie con statue maestose, i Buddha di Bamiyan.

Sono scolpiti nell’arenaria, in piedi, appena coperti da un leggero mantello che scende in pieghe sottili. Ricordano le statue dei grandi condottieri greci e romani. Sono la testimonianza più bella dell’arte di Gandhara, l’incontro tra gli artigiani greci al seguito di Alessandro Magno e l’arte indiana. In alto, sulla volta della nicchia si intravvedono vecchi affreschi.

Le immagini di Bodhisattva e dei fedeli intenti alla preghiera hanno aureole dorate attorno al capo, come quelle delle icone del Cristo bizantino e dei santi nella pittura del Trecento.

Afghanistan – 8 Bamyian. Le grotte dei monaci
Afghanistan – 9 Bamiyan. Il grande Buddha

Il buddismo era giunto in questa valle con i pellegrini nepalesi, attorno al terzo secolo d. C. e qui era sorto un monastero con migliaia di monaci. Il buddha più grande, alto più di 50 m, è già molto rovinato, forse dai tempi delle scorrerie di Gengis Khan o dalla conquista dell’Islam. La faccia è mezza cancellata e le gambe erose.

Eppure emana una suggestione sottile, una sensazione di pace e di tolleranza. Il braccio destro, velato dal manto leggero sembra ancora accogliere con la forza tranquilla di un tempo immutabile.

Verso sera ci avviamo verso i laghi di Band-i-Amir. Passiamo steppe infinite e aride colline dai colori bruciati. Dall’alto vediamo una serie di laghi azzurri illuminati dal tramonto rosato. Scendiamo fino ad una grande spianata sotto una falce di luna che scompare dietro le alte montagne.

Siamo soli, mentre il cielo si riempie di stelle nelle ultime luci viola. Le miriadi di stelle palpitanti nel blu evidenziano ancor più la Via Lattea luminosa come seta. I picchi altissimi sono rosati anche di notte.

Una incredibile magia trovarci sperduti quassù, tra le montagne più misteriose del mondo.

Afghanistan – La valle di Bamyian
Afghanistan – La nostra tendina nella spianata
Afghanistan – In attesa della partenza

Afghanistan 1967

Partecipo al concorso Travel Tales Award con un racconto sul viaggio in Afghanistan e India, tratti dal mio diario. Accompagnano le fotografie scattate per la maggior parte dal mio caro amico Francesco Ghion, che ci ha lasciati quattro anni fa. Il suo ricordo mi riempie sempre di affetto e di nostalgia per il tempo passato. Foto e racconti vogliono essere un omaggio alla sua gioia per la vita e alla sua bravura.

Il testo ci vede già arrivati in Afghanistan con le nostre due piccole Fiat e non descrive il lungo percorso, bensì la atmosfera e le impressioni riportate sul diario. 

Il racconto si riferisce a Kabul e alla sua gente di antica fierezza.  

La Foto 14 relativa a Kabul ci mostra tutti a cena con il segretario d’Ambasciata, la 15 Francesco Ghion con il parroco della chiesetta all’interno dell’ambasciata. La sua parrocchia era l’Afghanistan.

Afghanistan 1967. Gente di Kabul

Kabul ci accoglie con il solito caos delle città orientali, nel gran brulicare di gente a piedi e di tanti calessi trainati da un cavallo. Qui li usano come taxi.

Foto: © Francesco Ghion – I taxi di Kabul
Foto: © Francesco Ghion – Sull’asinello del nonno

Le nostre due piccole Fiat, che da Padova hanno già percorso più di 10.000 km, creano sorpresa e curiosità. Al centro di un incrocio un vigile dall’uniforme senza più colore è immobile e osserva il via-vai da una piccola pedana.

Si rianima appena vede le nostre auto che si fanno largo a stento. Scende deciso nel “traffico”, si mette a fischiare come un’orchestra, intima l’alt ad un vecchietto con l’asinello, ai carretti e ai numerosi pedoni pieni di fagotti multicolori e poi, con gesto magniloquente ed il volto illuminato dal suo più bel sorriso, ci indica che la via è libera.

Il bello è che ad ogni incrocio c’è lo stesso tipo di vigile, che esegue le stesse grandi manovre solo per noi.

Foto: © Francesco Ghion – Notabili di Mazar-i-Sharif

La città vecchia è un groviglio di viuzze dove si affacciano botteghe di ogni genere. L’affollamento è straordinario, carretti, asini, capre, qualche fuoristrada scassato e tanta gente con vesti fantasiose. Gli uomini usano vesti e mantelli sovrapposti e turbanti colorati in testa. Alcuni ostentano lunghi fucili, piuttosto vecchi e scassati. Forse solo decorativi.

Foto: © Francesco Ghion – Al mercato dei macellai
Foto: © Francesco Ghion – Le mogli dell’ufficiale

Impariamo a distinguere le tante etnie. I pashtun della zona di Kandahar portano un grande turbante bianco. I borghesi di Kabul un elegante berretto in pelliccia di karakoul. Gli afghani del Nord indossano il pakol, un berretto marroncino che sembra una padella con il bordo ingrossato. Assomiglia al copricapo dei Signori del Rinascimento italiano.

Davanti ad un cinematografo nel bazar, una piccola folla commenta sorpresa i manifesti del film americano Cat Ballou, in cui Jane Fonda si mostra in una posa curiosa.

Foto: © Francesco Ghion – Cat Ballou
Foto: © Francesco Ghion – Il venditore d’acqua

Seduto a terra, un erudito legge il Corano ad un devoto accovacciato di fronte. L’afghano sembra un po’ perplesso.

Foto: © Francesco Ghion – Al bazar. La lettura del Corano
Foto: © Francesco Ghion – Il Fotografo

Un venditore d’acqua porta un otre ricolmo. La barba è tinta di rosso con l’hennè. E’ vestito di una stoffa ricavata da un sacco, ma con taglio quasi occidentale. Orologio al polso e toppe sui gomiti ne fanno un elegantone.

Foto: © Francesco Ghion – L’attesa

Al mercato le donne con il burqa appaiono silenziosi fantasmi colorati. Da lontano vedi volteggiare un leggero mantello dai colori tenui dell’azzurro e del rosa. Scende dalla testa ai piedi e le mille pieghe si muovono sinuose. Un bimbo in braccio si nasconde tra le pieghe.

Foto: © Francesco Ghion – Bimbo addormentato nel burqa

Ne siamo veramente affascinati. Nella immaginazione dei nostri vent’anni, così tutte le donne diventano belle, una immagine fluttuante, un corpo etereo che il vento si diverte a nascondere ed evidenziare, un balenare di occhi neri che ti osservano curiosi. Poi il capo si abbassa e il burka scompare tra la gente in un leggero fruscio.

Francesco Ghion

Foto: © Francesco Ghion – Spaghetti con l’ambasciatore
Foto: © Francesco Carmignoto – Francesco Ghion con il parroco di Kabul

Siate felici: lo vuole il Re del Bhutan

Andiamo per ordine: il nome corretto di questo piccolo stato himalayano è Bhutan e non Buthan, in poche persone lo conoscono, molti non lo hanno neanche mai sentito nominare, eppure esiste sulle mappe di Google, sugli Atlanti moderni ed è uno dei Paesi al mondo con la miglior qualità della vita…

Il Bhutan è l’unico Paese al mondo ad avere il Ministero della Felicità! Lo ha voluto il Re per i suoi Sudditi e funziona benissimo: la gente sta davvero bene e si vede… Il nome Bhutan è incerto, c’è chi dice derivi dal sanscrito Bhota-ant, ossia “la fine del Bhot” cioè del Tibet, oppure dal sanscrito Bhu-uttan che significa “alte terre” poichè siamo alle pendici dell’Himalaya.

La bandiera è rettangolare ed è divisa in due triangoli con il giallo che rappresenta la monarchia, e l’arancione che rappresenta la religione buddhista; sulla bandiera campeggia un drago simbolo di benessere.

In cammino verso il Tiger’s Nest, il Monastero della Tigre, una delle più ambite mete turistiche in Bhutan.

Il Ministero della Felicità:

Ho chiesto alla mia guida se fosse vera la voce che ci era giunta che in Bhutan esiste il ministero della felicità o fosse solo una fake news che corre tra noi Viaggiatori occidentali alla ricerca di esotiche stranezze. Ebbene si, il Ministero della Felicità esiste ed è un ministero unico che si occupa a livello centralizzato di tre cose ritenute fondamentali per il benessere dei Sudditi del giovane Re: Pubblica Istruzione, Sanità e Lavoro

L’Istruzione viene garantita gratuita ed è obbligatoria per tutti fino alla scuola superiore, poi chi vuole frequentare l’Università deve andare all’estero grazie a progetti finanziati dalla Cooperazione Internazionale. Il Ministero si occupa poi della salute, e anche questa viene ad essere gratuita per tutti. In Bhutan ci sono pochi piccoli ospedali e vanno bene solo per il pronto soccorso e per i reparti di Ostetricia, per tutto il resto il Paese paga le cure all’estero  per i suoi cittadini (mandandoli a curare soprattutto in India). Infine il Ministero della Felicità provvede al Lavoro di tutti: chi non ha come sostentarsi può fare richiesta di un terreno demaniale da coltivare: una concessione gratuita cui hanno diritto coloro i quali non hanno altri modi per sostentarsi.

Risaie nei pressi di Khamsum Yuelley Namgel Chorten, cun tempio che è stato costruito per rimuovere le forze negative e promuovere la pace, la stabilità e l’armonia nel mondo che cambia.

Il sovrano illuminato sostiene che quando i suoi Sudditi hanno istruzione, sanità e lavoro hanno tutto il necessario per essere felici. E in effetti non sbaglia perchè camminando per le vie della Capitale Thimpu si percepisce un clima di serenità sui visi delle persone.

Ma per essere un Re amato e rispettato davvero dal suo Popolo ci vuole coerenza ed empatia con il Popolo. Qui in Bhutan il sovrano gira in città a piedi senza scorta e guida personalmente la sua auto (un normalissimo SUV), e ha l’Autista solo nei momenti Ufficiali come ad esempio le visite di altri Capi di Stato… Il padre dell’attuale sovrano, ha abdicato il Regno a favore del figlio Jigme Khesar Namgyel Wangchuck perchè a soli 53 anni sentiva che un giovane di 18 anni, meglio di lui, avrebbe saputo condurre il Paese.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Senza pagare le tasse: 

Quando viaggio, mi piace guardare i numeri che mi danno la dimensione delle cose,  un’idea, dei riferimenti, per capire cosa accade intorno a me. Un Regno con soli 800.000 abitanti: uno Stato intero che è popoloso come un quartiere di Roma… 

Viene da chiedersi come gestire un territorio che comunque non è piccolo, con così poche risorse…. Ne esce un problema di Finanza anche perchè, qui non si pagano le tasse! Come fa lo stato a finanziarsi? Fortunatamente il Bhutan si trova ai piedi dell’Himalaya e grazie allo scioglimento delle nevi, i suoi fiumi sono sempre in piena e hanno una portata di acqua enorme: le potenti dighe quindi producono energia elettrica che viene venduta alla Cina e all’India e gli incassi che ne derivano sono sufficienti e sostentare la macchina statale senza che le persone siano obbligate a pagare le tasse.

Le tasse le pagano solo le grosse Compagnie straniere e la gente vive con uno stipendio comunque dignitoso che gli permette di vivere ed essere realmente felici.

Nelle case, con la gente. Vengono tostati i cereali.

Tradizione e Religione:

In Bhutan c’è l’obbligo, per tutti i dipendenti pubblici, di vestire con gli abiti tradizionali, e nei giorni di festa l’obbligo è esteso a tutti i Cittadini, e siccome ci sono decine di giorni di festa ogni anno in tutto il Paese, da queste parti è più facile vedere le persone vestite con abiti tradizionali che con abiti moderni! Tutto questo è previsto dal “codice delle buone maniere” che qui chiamano Driglam namzha.

Il vestito tradizionale maschile si chiama Gho, è una sorta di lunga vestaglia e lascia le gambe coperte dai lunghi calzettoni neri, la parte alta, con il bavero abbondante, viene usata come se fosse un grosso tascone, una sorta di marsupio nel quale ciascuno può tenere oggetti, documenti, cibo, attrezzi e tutto ciò che in essa può essere trasportato. La cintura nera che li cinge in vita è la Kera ed è fondamentale proprio perchè fa da “fondo” al tascone. Per le donne c’è invece la Kira, un vestito lungo fino alle caviglie fatto con tessuti colorati e decorato con disegni geometrici tradizionali.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Ma in Bhutan la tradizione non è solo negli abiti, qui viene mantenuta viva anche nelle case che devono avere un particolare tipo di finestra in legno sagomato e colorato secondo lo stile locale. E non è tutto: anche i colori ammessi in qualunque tipo di utilizzo pubblico o privato sono stati previsti in una speciale “mazzetta cromatica” che ne ammette solo alcuni escludendo tutti gli altri.

Il buddismo è la Religione di Stato in Bhutan ma c’è anche una certa apertura verso altre religioni come l’induismo e per le minoranze cristiane che possono professare però il loro credo solo in casa. I suoi festival di origine religiosa si svolgono all’interno degli Dzong che sono i tipici edifici del Bhutan con una curiosa funzione mista di centro militare, e allo stesso tempo anche religioso, tutto all’interno di uno stesso edificio. Gli dzong, vengono costruiti rispettando le regole di stile imposte per legge e naturalmente il lavoro di progettazione viene stabilito in accordo tra le autorità religiose e quelle civili.

Punakha Dzong (Palazzo della Grande Felicità o Palazzo d’Estate)

Ogni dzong ospita un festival religioso annuale chiamato tshechu durante il quale si svolgono le danze con costumi coloratissimi che rappresentano animali reali o mitologici chiamate cham che possono durare per ore ad un ritmo lento e incessante, angosciante e tetro. Fondamentalmente le trame dei cham celebrano la vittoria del bene sul male con la sottomissione del diavolo e la liberazione dagli spiriti maligni.

Durante i cham, tra i danzatori ufficiali che si esibiscono in faticose ed estenuanti coreografie rituali, fanno la loro comparsa assolutamente incontrollata delle figure di disturbo (anch’esse mascherate) che entrano liberamente e improvvisamente nella scena per ridurre la tensione. Hanno una ruolo fondamentale e allo stesso tempo irriverente e dissacrante e portano gli spettatori (e i bambini in particolare) a grosse risate inaspettate e nessuno si mostra disturbato dalla loro presenza che ha esattamente la funzione del clown nel nostro circo durante l’esibizione del domatori di leoni.

Il Paese che non ha semafori:

Un vero Viaggiatore prima di partire sa darsi un obiettivo, ha uno scopo per decidere di fare quel viaggio. Ciò che ci spinge a metterci in viaggio non è mai la meta finale, la destinazione non è un punto di arrivo, ma il concretizzarsi di un “percorso” che a volte dura anni e che nulla ha a che fare con la “strada” necessaria per arrivare. Ciascun Viaggiatore si chiede quindi prima il perchè sceglie una meta piuttosto che un’altra, e ciascuno avrà una risposta diversa da tutti gli altri.

Mi sono chiesto anche io perchè il Bhutan, perchè raggiungere una destinazione tanto insolita, un Paese quasi del tutto sconosciuto al Turismo nel quale arrivano ogni anno solo 20.000 Turisti da tutto il mondo, metà dei quali sono Indiani. Il Visto “all inclusive” che costa circa 250 dollari al giorno comprende anche il pernottamento, i pasti e la guida locale obbligatoria più i trasporti interni con autista privato e le tasse di soggiorno.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Sono andato in Bhutan perchè mi piacciono i viaggi etnici, e scoprire culture lontane, mi piace il rapporto tra la gente e la religione, documentare la spiritualità delle persone che vivono in Paesi in cui la religione è un valore costituzionale e fa parte della struttura sociale.

Sono andato fino in Bhutan appositamente per fotografare i Festival di Punakha e di Thimphu che si svolgono in ottobre a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Tutto il viaggio è durato 8 giorni di cui quattro li ho passati nei festival vivendo le danze in mezzo alla gente: qui gli spazi sono aperti e la libertà di muoversi è assoluta: ci si può sedere anche accanto al Re, se si trova un posto libero nella Tribuna d’Onore.

Le armi giocattolo sono il gioco preferito da tutti i bambini

Il popolo è accogliente e sorridente: questa gente ti apre le porte di casa per farti entrare e offrirti un tè anche se non ti ha mai visto prima. Molti di loro vivono in campagna coltivando riso sui campi terrazzati a gradoni e sono molto ospitali con i pochi stranieri che si spingono fino in Bhutan a scoprirne la cultura. In Bhutan tutto è a misura d’uomo: basti pensare che in tutto il Paese non esiste un semaforo e che gli incroci principali sono controllati da vigili urbani che dirigono il traffico in guanti bianchi, grazie al Ministero della Felicità qui non esiste la disoccupazione.

In tutto il Bhutan c’è un solo aeroporto, a Paro, incastrato in una valle e il suo atterraggio è così complicato che ci sono solo 6 piloti al mondo abilitati a farlo. Tutti questi mi sono sembrati motivi più che sufficienti per scoprire che il Paese in cui tutti vorremmo vivere per essere felici esiste davvero e si chiama Bhutan.

Ah… Ricordate un’ultima cosa: in tutto il Bhutan è severamente vietato fumare!

Il Tiger’s Nest arroccato sulla montagna. Per arrivarci bisogna salire (è possibile arrivarci solo a piedi) per oltre 900 metri di dislivello

India, Kumbh Mela 2019

La sacralità del luogo

Il Kumbh Mela è una di quelle esperienze che non si dimenticano, che quando torni a casa senti che qualcosa è cambiato, che hai partecipato ad un evento emotivamente forte, sconvolgente e affascinante.

Non è solo un evento religioso, o un ritrovo di fedeli che si riuniscono in preghiera condividendo tradizioni o rituali, ma è la più grande manifestazione religiosa del Mondo.

Un enorme pellegrinaggio che coinvolge, a seconda degli anni, fino allo spaventoso numero di 100 milioni di persone.

Siamo in India, nello Stato dell’Uttar Padesh, e precisamente ad Allahabad, città in cui confluiscono i tre fiumi sacri agli induisti: il Gange, lo Yamuna e il mitico Sarasvati, oggi scomparso, o a detta di alcuni quasi totalmente sotterraneo, ma che mantiene ancora vivo per i fedeli il Culto della Dea da cui prende il nome.

La storia del Kumbh Mela e le sue celebrazioni sono legate a leggende dai forti connotati mitologici ed astrali, e come in tutti i poemi epici che si rispettino, anche qui buoni e cattivi combattono, e combattono per 12 giorni e 12 notti finchè Vishnu, che aveva ordinato di agitare gli Oceani per ottenere il nettare dell’Immortalità, chiamato Amrita, ne fece cadere alcune gocce nei quattro luoghi che così divennero sacri : Allahabad, Haridwar, Ujjain, e Nashik.

Proprio in queste quattro città si svolge a rotazione, ogni tre anni, questo importantissimo pellegrinaggio.

IndiaL’esperienza umana

C’erano 50 milioni di persone attorno a me. 50 milioni di persone che camminavano, camminavano ininterrottamente, giorno e notte, senza sosta. 50 milioni di pellegrini, fedeli delle più svariate sètte induiste (akhada), che hanno attraversato il paese con treni speciali, pullman, camion, ed ogni altro mezzo di fortuna per radunarsi in un’area di non più di 20 km di lunghezza per 32 km quadrati di superficie.

Inimmaginabile per noi occidentali, impossibile da capire, troppo lontano dalla nostra cultura e dalla nostra esperienza umana.

E soprattutto difficile da descrivere. Quasi impossibile.

Il mio primo impatto in quest’area che sembrava un enorme campo tendato, è stata una scena che ricordava l’esodo biblico.

Decine… centinaia… migliaia di poverissimi pastori che venivano dallo Stato del Bihàr, nell’India nordorientale, arrivati qui con 5 pullman, ogni pullman con più di 100 persone.

IndiaScendevano ordinatamente da un alto terrapieno, non si vedeva l’inizio della sterminata fila di persone. Arrivavano cantando, vestiti con quanto di più povero potessero trovare, tutto ciò di cui avevano bisogno era racchiuso in fagotti di tela che portavano sulla testa o annodati in lunghi bastoni poggiati sulle loro spalle.

I più religiosi portavano con sé della paglia. Erano a digiuno e avevano promesso a loro stessi di “dormire su un letto di paglia” finché non avessero fatto le abluzioni nei fiumi sacri.

Capitava spesso, infatti, di trovarne distese enormi lungo le rive dei fiumi, e sopra di esse altre distese di gente che si spogliava e rivestiva senza alcun pudore o soggezione, o paura di essere guardati male.

Si immergevano, quasi completamente svestiti, nelle acque gelide a qualsiasi età, e a qualsiasi ora, giorno o notte che fosse.

Spesso incontravo figli che portavano gli anziani genitori perché potessero fare la loro sacra immersione prima del trapasso che sentivano avvicinarsi.

Ed è proprio questo il motivo più profondo dell’essere qui, almeno una volta nella vita, per ogni Induista: un dovere che ognuno sente dentro di sé, come liberazione e purificazione dell’anima e dello spirito.

Questo è infatti quello che mi è stato detto anche dalla mia fidatissima guida:

Ogni induista crede che sia molto importante andare almeno una volta nella vita sui luoghi sacri della religione Hindu per fare le abluzioni nelle acque del fiume Gange o degli altri fiumi sacri nei periodi del Kumbh Mela perché questi luoghi sono stati benedetti dalla divinità Vishnu.

Chi farà i bagni sacri nel corso di questi eventi verrà pulito di tutti i peccati e potrà seguire la strada per il moksha, ovvero la liberazione e la salvezza come condizione spirituale superiore”.

La decisione di rimanere nel campo

India

La decisione di rimanere a dormire all’interno dell’area del Kumbh,  senza tornare al nostro comodo campo tendato si è dimostrata vincente .

Troppa folla, i ponti erano stati chiusi, se avessimo dormito al nostro campo non saremmo probabilmente riusciti arrivare nemmeno partendo a mezzanotte. Impossibile.

Con entusiasmo, molta curiosità e tanti chilometri a piedi, ci incamminammo così, verso il tendone dei Sadhu che ci avrebbero ospitati.

La strada era lunga parecchi chilometri,  e quello che c’era intorno a me era incredibile .

Fedeli poverissimi, famiglie con bambini, sadhu, asceti… Guru con vesti  arancioni, o solo con perizomi bianchi, o semplicemente vestiti di cenere.

Tendoni delle varie sette, in ognuno dei quali c’erano cerimonie religiose, venivano accolti i fedeli, si mangiava, dormiva, pregava, predicava, accoglieva…

Sulla strada c’era chi benediva, e chi chiedeva donazioni possibilmente in moneta del paese di provenienza, o chi camminava verso chissà quale luogo dove fermarsi a dormire… chi lavava, cucinava, ed anche qualcuno che stirava.

IndiaE il tutto con un’organizzazione perfetta, con gli eserciti di 5 Stati Indiani, decine di migliaia di bagni, punti di informazione, ospedali da campo.

E soprattutto c’era silenzio, un caos ordinato e un religioso rispetto per chiunque.

Arriviamo dai nostri ospiti.

Ho conosciuto subito il Maestro, un vecchio con occhi buoni e capelli grigi lunghi e stoppacciosi. L’accoglienza è stata bellissima e calorosa.

Quella,  adesso era casa nostra.

IndiaIntorno a me,  a terra,  c’era un gruppetto di devoti,  fumavano marijuana, alcuni erano completamente storditi, dormivano o a malapena tenevano gli occhi aperti.

IndiaErano questi i miei compagni di camera?

Ho mangiato con loro, seduta a terra e servita in piatti di metallo, rigorosamente senza posate. Il cibo, buono e speziato al punto giusto, si prendeva aiutandosi con il pane senza usare le posate.  Tutto bellissimo. Ed emozionante.

Quelle gentilissime persone che mi hanno ospitata per due giorni, servita e riverita erano Naga (Nudo) Baba.

Fanno parte della “famiglia” dei Sadhu, e come dice il loro nome, usano uscire nudi e coprirsi il corpo con la sola cenere.

Si dice che, a differenza di altri gruppi Sadhu, non siano propriamente pacifici, possano essere vendicativi ed arrivare alla mortificazione del proprio corpo e soprattutto del loro pene, desensibilizzandolo in vari modi: ho visto lucchetti, spade, e altri oggetti utilizzati per questo scopo.

Proprio loro, assieme alla più estrema delle sette Sadhu, gli Aghori, alle 3 di mattina hanno aperto la lunga processione fino ai gath alla confluenza dei fiumi sacri.

Erano il gruppo più atteso e scenograficamente più impressionante.

 

La lunga notte del Shahi Snan

L’esperienza più straordinaria è stata nella notte tra il 3 e il 4 febbraio.

Questa notte si è svolto il Shahi Snan, bagno rituale alla confluenza dei tre fiumi sacri, evento più importante di tutto il mese della Festa.

Un esercito di uomini nudi vestiti solo di cenere bianca e ghirlande arancioni sulla testa, con capelli lunghissimi arruffati e raccolti,  o completamente rasati si preparavano fuori dalle loro tende per iniziare il cammino più importante, seguiti da migliaia di seguaci e qualche curioso.

Una scena che difficilmente si dimentica.

IndiaIndiaHo camminato per tre km circondata da tutto il genere umano.

Tutta l’area, illuminata a giorno, aveva un’atmosfera surreale.

Sfilavano i carri degli asceti, sventolavano le bandiere arancioni, i manifesti giganti con le fotografie dei maestri venivano portati dai fedeli, e poi, c’era chi suonava i tamburi, e chi semplicemente camminava, andava avanti quasi per inerzia fino alla meta tanto desiderata.

Tutto intorno gente… gente… e ancora gente… e le tende dove dormivano, file infinite di bagni allestiti per l’occasione, militari a piedi e a cavallo che si occupavano di mantenere la sicurezza e l’ordine, e che severissimi allontanavano i non autorizzati, senza occuparsi troppo se sotto gli zoccoli dei cavalli finiva qualche essere umano.

Anime erranti mi circondavano da ogni lato con sguardi neri e profondi, avvolti da vesti povere ma pulite, e con la testa spesso coperta da cappelli di lana per affrontare la lunga e fredda notte.

Ognuno viveva quel momento da solo, in un intimo e religioso silenzio.

Le abluzioni

L’arrivo ai fiumi è stato memorabile.

Questo era per i fedeli il momento più importante: il momento del bagno sacro, aspettato probabilmente una vita intera e che per sempre rimarrà nei lori cuori e nelle loro anime.

La notte era fredda e ancora fonda. L’illuminazione era perfetta.

Per terra erano accatastati migliaia di abiti e scarpe.

Corpi per lo più magrissimi, prevalentemente con barbe bianche e lunghe, e donne seminude, procedevano verso l’attesa purificazione immergendosi nell’acqua freddissima del Gange o dello Yamuna che proprio qui si incontrano.

Qualcuno cercava di arrivare ad immergersi nell’acqua insieme ai propri maestri, il che rendeva quel momento ancora più sacro e ricco di significato.

Lo spazio in cui si svolgevano le abluzioni era piuttosto piccolo e delimitato da galleggianti, ed i responsabili della sicurezza sui loro gommoni lavoravano per garantire a tutti di poter vivere al meglio le loro abluzioni.

Qui le correnti sono infatti molto forti e i rischi di incidente, considerando anche la forte densità di persone, sarebbero potuti essere molto alti, ma tutto si è svolto per fortuna senza alcun problema e nel migliore dei modi.

L’esperienza al Kumbh si conclude così, un misto di emozioni fortissime si alternano nella mia testa pensando che nonostante questo strano mondo possa sembrare a noi occidentali così diverso, lontano ed incomprensibile, la grande umanità, simpatia ed ospitalità della gente mi ha fatto sentire in una grande

famiglia e sempre più curiosa di continuare a conoscere, ed immergermi in nuove culture che altro non possono fare che arricchirmi e rendermi migliore.

 

Giordania: da Petra al Wadi Rum

Per un Viaggiatore di solito non conta tanto la meta, quanto la “strada” fatta per arrivarci. La Giordania è diversa: per alcuni versi tutto il Paese è una destinazione straordinaria, ma è anche un “percorso” da fare lentamente alla scoperta di un Popolo che si sta aprendo alla modernità occidentale mantenendo ancora intatte le sue tradizioni religiose e culturali.

La Strada dei Re

Abbiamo parlato di strade e non c’è modo migliore di viaggiare in Giordania che evitare la comoda e moderna autostrada che passa in pianura e percorrere l’antica Strada dei Re che è una ampia strada panoramica di montagna che si inerpica tra Paesini anonimi e proprio per questo pieni di fascino.

Questa antica dorsale di comunicazione risale ad oltre 5000 anni fa, poi nota anche come Via Traiana, e si estende per circa 460 chilometri da dalla Capitale Amman, le rovine archeologiche della antica Jerash di epoca romana, passando per Dana, Petra il deserto del Wadi Rum fino ad Aqaba sul Mar Rosso.

Il percorso è mozzafiato: si estende tra gole brulle, aspre, desertiche con curve a tornanti, e ovviamente, visto che in epoca remota era l’unica via di collegamento per uomini e merci con il mare, lungo di essa sono nati, e tutt’oggi si incontrano, i Patrimoni dell’UNESCO di Petra e Jerash che da soli valgono il viaggio.

La Strada dei Re si inerpica tra le montagne. Foto © Roberto Gabriele

Se deciderete di muovervi gustandovi la Strada dei Re (e ve lo suggerisco), tenete presente una velocità media di circa 70-80 km/h e non abbiate fretta: il tempo dilatato giocherà a favore di tante soste da fare nel bel mezzo del nulla per godere al massimo i suoi panorami. E’ questo il percorso migliore da seguire perchè tocca tutte le principali destinazioni di interesse turistico che vedremo in queste pagine.

Molto più di una semplice striscia di asfalto, più di una tratta storica: la Strada dei Re è parte integrante del viaggio stesso, è una meta imperdibile almeno quanto lo sono le località che unisce tra loro. Armatevi di fotocamera e di tanta curiosità: il vostro viaggio è già iniziato.

Il viaggio:

Ora che abbiamo capito che il modo migliore per spostarsi in Giordania è seguire la Strada dei Re, vediamo quali sono i siti imperdibili che rendono questo Paese straordinario e scopriamo cosa c’è da sapere per muoversi in sicurezza.

Tanto per cominciare, sappiate che in Giordania ci si può spostare in tutta tranquillità anche con un’auto a noleggio che potrete guidare voi stessi per muovervi in totale libertà. Suggerisco però di avere sempre un navigatore GPS perchè, specie in zone poco turistiche, potreste trovare che i cartelli indicatori non sono scritti bilingue ma solo in arabo! Il Vostro Google Maps potrebbe essere una buona idea gratuita purchè vi scarichiate le mappe off line in modo da potervi connettere senza utilizzare la rete dati locale che in roaming è costosissima. Se seguirete il percorso che vi suggerisco di fare verso sud lungo la Strada dei Re, per il ritorno potreste tornare verso Amman costeggiano la sponda giordana del Mar Morto oppure arrivare fino ad Aqaba dove prendere un volo di rientro verso l’Italia.

La Giordania è una monarchia islamica: il re è molto benvoluto dal Popolo e gli aspetti religiosi, pur essendo molto radicati nella mentalità della gente, non arrivano mai ad eccessi di intolleranza o di ostilità nei confronti degli Ospiti stranieri, nè ci sono per i Cittadini obblighi o sanzioni per chi non crede nell’Islam. La religione insomma è molto sentita ma non obbligatoria: ci sono molti laici sia tra gli uomini che tra le donne.

La situazione sociale e politica è molto stabile: la Giordania da molti anni è in pace con tutti i Paesi confinanti nonostante si trovi in un’area molto calda a livello di tensioni internazionali. Di norma quindi, i turisti sono ben accetti da tutta la Popolazione e il benvenuto è sincero, non si è mai assediati da insistenti venditori di strada. Un saluto e un sorriso saranno sempre la chiave migliore per aprire qualsiasi rapporto con la popolazione.

Jerash:

L’antica Gerasa, oggi il suo nome in arabo è diventato Jerash, è una antica città Romana ancora perfettamente conservata, patrimonio dell’UNESCO. Si trova a meno di un’ora di auto dal centro di Amman ed è un sito archeologico mozzafiato nel quale è un piacere perdersi tra i resti di una città romana con cardo e decumani ancora perfettamente conservata.

Jerash vi darà il benvenuto con l’Arco di Adriano che si trova all’ingresso della città e da cui parte la Strada dei Re. Subito dopo l’arco troverete l’Ippodromo: un autentico tuffo nel passato, qui sono ancora visibili le tribune e tutto il percorso che veniva fatto dalle bighe, in questo luogo vi sembrerà ancora di ascoltare le urla della folla che incita gli atleti in competizione.

Camminando lungo le strade, ancora tutte lastricate, si arriva al Foro con il suo colonnato ovale che è rimasto intatto, sepolto per secoli e ora riemerso in tutto il suo splendore grazie al lavoro degli archeologi. Potreste rimanere per ore a camminare qui e pian piano spostarvi verso il Teatro e l’Odeon che ancora fanno mostra di sè con gradinate in marmi pregiati e ancora funzionanti con intense stagioni di spettacoli.

Il Foro di Jerash. Foto: © Roberto Gabriele

Riservate una visita di almeno 3-4 ore a questo luogo incantato, avventuratevi tra le sue strade lastricate di pietre bianche e rimanete in silenzio ad ascoltare il frinire assordante delle cicale e dei grilli in estate…

Petra:

Uscite da Jerash e iniziate a percorrere la Strada dei Re verso sud: tra un tornante e l’altro, salendo e scendendo le numerose montagne che troverete lungo il percorso, arriverete a Petra, la vera meta del nostro viaggio in Giordania.

Fate in modo di visitare prima la Piccola Petra, poco distante dal sito maggiore e arrivateci preferibilmente un’ora prima del tramonto quando la luce dorata del sole crea lunghe ombre nel canyon e illumina perfettamente le rovine di pietra calcarea. Ricordate di visitare prima la Piccola Petra che vi permetterà di entrare in un crescendo emozionale per poi vedere Petra.
La visita di Petra richiede dalle 4 alle 15 ore di tempo a seconda di quanto vorrete approfondire la vostra conoscenza, vedrete che, comunque scegliate di farla in base alle vostre condizioni di salute e alle vostre aspettative, quel tempo vi passerà in fretta.

Petra by Night: il Tesoro. Foto © Roberto Gabriele

Per i più arditi suggerisco di mettersi in fila ai cancelli già all’alba, ed entrare alle prime luci del sole (quando l’aria è ancora fresca ed è meno trafficato da turisti di ogni parte del mondo).

Il sito di Petra è una lunga strada di circa 6 chilometri affiancata su entrambi i lati dai resti della vecchia città che si estende dall’ingresso fino al Monastero passando per il Tesoro, le Tombe dei Re, il Teatro e il Colonnato. Potrete vederne una parte o farla tutta, ricordatevi solo che la strada che farete all’andata dovrete rifarla uguale anche al ritorno: dosatevi le energie. C’è la possibilità di fare alcuni tratti su piccoli calessini trainati a cavallo oppure a dorso di asino o dromedario. Per chi vuole arrivare fino al Monastero (ultima parte visitabile) il modo migliore è armarsi di pazienza e affrontare gli 800 gradini da fare a piedi in circa un’oretta di cammino.

Se vi è piaciuta Jerash, una visita approfondita a Petra cambierà per sempre la vostra vita: un vero salto nel tempo che vi riporterà in una full immersion all’epoca dei Nabatei nel VI secolo AC quando la città, nascosta tra le montagne e nel suo Siq scavato dall’acqua nella roccia, prosperava nei commerci tra oriente e occidente.
Impossibile rimanere impassibili al fascino storico di Petra: i suoi monumenti sono ancora intatti e brillano da secoli sotto i tagli di luce che il sole disegna insinuandosi tra le rocce policrome di pietra arenaria.

Formazioni di roccia arenaria policroma a Petra

Il modo migliore di terminare la giornata a Petra (ecco perchè la vostra visita potrebbe durare fino a 15 ore) è assistere allo spettacolo di Petra by Night: 3 notti ogni settimana il Siq e il Tesoro vengono illuminati dalla meravigliosa luce incantata di migliaia di candele che rischiarano la notte e vestono il sito di un’atmosfera surreale che non dimenticherete facilmente.

 

Il Wadi Rum:

Al mattino successivo, dopo Petra, riprendete di nuovo la Strada dei Re e puntate ancora verso sud: in un paio di ore arriverete nel deserto del Wadi Rum. Qui è facile trovare posto per dormire nei tanti campi tendati di lusso che sono nascosti tra le rocce proprio per essere meno visibili e lasciare intatta la bellezza dell’ambiente circostante.

Il Wadi Rum è un deserto relativamente piccolo (circa 70 km di diametro) rispetto ad altri deserti del mondo, ma molto selvaggio e con scorci paesaggistici indimenticabili.

Wadi Rum

Qui, una volta arrivati in auto (o in bus) non potrete procedere con i vostri mezzi tra le dune, ma vi occorre un fuoristrada con un autista che vi porti in giro in sicurezza senza perdervi e senza insabbiarvi con un mezzo non idoneo che potrebbe rivelarsi pericoloso. Il giro che in genere fanno fare ai turisti dura un paio di ore al tramonto, ma il mio suggerimento è quello di arrivare entro le 11 del mattino e fare un tour di almeno 6 ore per vedere il deserto, fermarvi a pranzare tra i resti della casa di Lawrence d’Arabia o all’ombra di un Djebel o sotto la Roccia del Fungo.

Con un pò di fortuna potrete anche incontrare una carovana di dromedari che camminano nel deserto portando approvvigionamenti ai campi tendati.
La notte stellata concluderà il ricordo di uno dei viaggi più belli che potrete fare a sole 3 ore e mezza di volo da Roma.

L’Arco grande nel Wadi Rum. Foto: © Roberto Gabriele

Mangiare in Giordania:

Se vi state chiedendo come sarà il cibo in Giordania ve lo dico io: si tratta di una cucina tipicamente mediterranea perchè gli ingredienti usati sono fondamentalmente gli stessi che utilizziamo noi dal pomodoro all’olio di oliva, dai legumi alle melanzane.

Il pane arabo è buonissimo, lo potrete mangiare caldo appena sfornato in strada e preparato come le nostre piadine ma immaginatele cotte a legna e molto più lievitato…

Tra le cose tipiche da mangiare ci sono l’Hummus (una sorta di crema a base di farina di ceci) e il Mutabbal (anche questa una sorta di crema a base di melanzane al forno con aglio) e i mitici Falafel (polpettine a base di farina di ceci leggermente speziate e fritte), ovviamente non mancano le carni di agnello e pollo cucinate al tegame o alla brace in forma di spiedini che qui chiamano Koftah o Kebab.

Bancarelle nel mercato di Amman. Foto: © Roberto Gabriele

Sempre presente anche il riso (chiamato Maqluba quando servito con la carne di pollo) e tantissimi dolci a base di miele come la Baklava (pasta fillo, miele, pistacchi) e il Knafeh a base di formaggio fuso su una base di sfoglia da mangiare caldo con un filo di miele il cui sapore ricorda le nostre Seadas sarde.

Anche se siete dei patiti dello Street Food, potete stare tranquilli che le condizioni igieniche in Giordania hanno quasi sempre gli standard europei con cibo sempre freschissimo e buone condizioni di conservazione.

Leggilo su Acqua & Sapone:

Questo Articolo è stato pubblicato sulla Rivista Acqua & Sapone a luglio 2017, sfoglialo sul sito: https://www.ioacquaesapone.it/leggi/?n=asgiugno2020#117

Azerbaijan: gas, petrolio, e…

Ci sono i “viaggi del cuore”, c’è il “Viaggio della vita” ci sono le “vacanze spensierate”, i viaggi semplici e quelli avventurosi e poi… E poi c’è L’Azerbaijan, un Paese nel quale non ti saresti mai immaginato di andare, un Paese tutto da scoprire, nel quale letteralmente non sai cosa aspettarti e del quale non trovi neanche info sul web. Parti solo conoscendo la data del volo aereo.

Insomma ti scopri completamente ignorante di un angolo di mondo e decidi di partire, di andare a vedere cosa ti sei perso, cosa si perdono quelli che ancora non ne sanno nulla…

Ed è proprio quello che è successo a me: tornando dall’Uzbekistan ho deciso di fare con il volo uno scalo a Baku, la capitale. Fino a quel momento non l’avevo neanche mai sentita nominare…

La metropolitana di Baku in stile monumentale sovietico. Foto: © Roberto Gabriele

Baku:

Arrivando a Baku mi sono immediatamente accorto che le mie poche, pochissime, aspettative che avevo su questo Paese erano in realtà frutto della mia fantasia e di una specie di bonario “pregiudizio” che avevo sul Paese.

Il pazzesco sillogismo per il quale siamo convinti che una cosa, se non la conosciamo o non ne abbiamo sentito parlare, allora vuol dire che non è bella, che non la conosce nessuno e che non c’è nulla da vedere o da fare… Un vero Viaggiatore non dovrebbe mai ragionare in questo modo, ma è umano, capita di farlo… L’ho fatto anche io. Sbagliando. E per vincere la mia ignoranza ho deciso di andare a colmare le mie lacune.

L’Azerbaijan ha ottenuto la sua indipendenza dalla ex URSS il 18 ottobre 1991, per cui in tempi abbastanza recenti, mi aspettavo quindi che Baku fosse una città con vecchi retaggi da regime, con austeri e imponenti edifici di stampo sovietico. Pensavo a giganteschi condomini e strade enormi per le classiche parate militari da guerra fredda… Pensavo insomma al vecchio clichè architettonico di Berlino Est, piuttosto che a Tashkent o Tiraspol, Astana… A quelle città costruite per dare fasto al regime comunista dell’epoca.

donna di Baku
Tra le vie periferiche di Baku sembra di essere tornati nella ex Unione Sovietica. Foto: © Roberto Gabriele

Ecco… Appena arrivato in aeroporto mi sono immediatamente ricreduto: quello che mi aspettavo fosse un gigante grigio e squadrato di cemento armato, un grosso “scatolone” porta persone, era invece uno dei più begli esempi di architettura aeroportuale che io abbia mai visto…

Un aeroporto ricco e fastoso come quello di un Emirato Arabo: modernissimo, rifinito e pulitissimo, che alterna forme armoniche in vetro e acciaio armonizzandole tra loro con la necessaria razionalità di uno scalo che guarda solo al futuro rinnegando il proprio passato.

Rinnegare il passato per l’Azerbaijan è stato ad esempio scrivere un nuovo alfabeto per cancellare completamente il cirillico a suo tempo imposto dal regime sovietico. Qui in Azerbaijan c’è ora una scrittura di provenienza latina, ma con alcune lettere modificate, segno di una vera e propria rivoluzione culturale che, per cercare una propria identità, ha iniziato a traslitterare la propria letteratura. Il Russo però è una lingua ancora molto parlata, studiata a scuola e conosciuta da chi è nato nella vecchia URSS e ora si trova cittadino Azero.

Il Il Centro Heydar Aliyev di Baku progettato dall’Architetto Zaha Hadid. Foto: © Roberto Gabriele

Lasciato l’aeroporto, in pochi minuti siamo arrivati alle porte della città, il benvenuto ce lo danno le costruzioni più moderne e innovative degli archistar più famosi al mondo: prima tra tutti Zaha Hadid. E’ opera sua l’enorme museo che è alle porte della città, ed è la prima cosa che si nota all’arrivo. Un museo come questo è già esso stesso un’opera d’arte che può ammirare chiunque gli passi davanti. Siamo rimasti due ore a camminare negli enormi prati circostanti, ad osservare e fotografare la gente che andava e veniva…

A pochi passi dal museo siamo arrivati in città e abbiamo notato qualcosa di strano…. barriere, tribune, tende, pubblicità enormi, strutture prefabbricate… Era la seconda sorpresa di cui non immaginavamo nulla: due settimane dopo ci sarebbe stato il Gran Premio di Formula 1 sul circuito cittadino di Baku, un pò come quello ben più famoso di Montecarlo… Pensavamo di trovare un Paese povero, tutto da scoprire e da… “civilizzare” e invece a due ore dal nostro arrivo ci rendevamo già conto che certi eventi muovono cifre incredibili e non può organizzarli un “Paese in via di sviluppo”.

Flame Towers
Le Flame Towers dominano la città di Baku. Foto: © Roberto Gabriele

Il nostro giro nelle strade del centro è stata una scoperta ad ogni passo: l’architettura è quella tipicamente parigina, elegante e neoclassica con i tipici tetti spioventi come nella Capitale francese, e nel centro nulla rimane, inaspettatamente, delle austere linee architettoniche del regime sovietico.

Baku è una città che ci ha saputo stupire, lasciare letteralmente a bocca aperta ad ogni angolo. Modernissimi centri commerciali, una linea di metropolitana semplice ma che copre tutta la città, un centro storico fortificato con vicoli e mura nelle quali è bello perdersi andando in giro ad esplorare ogni scorcio della città tra lussuose Ambasciate che si affiancano ai negozietti di paccottiglia per turisti.

Ma il centro è un susseguirsi di nuovissimi edifici e centri commerciali modernissimi in cui vetro e acciaio la fanno da padroni a copertura delle architetture più moderne e sfarzose. Tra questi il museo del tappeto con la sua tipica forma arrotolata e con tanto di decorazioni orientaleggianti, il lungomare che si estende sul mar Caspio è tutto un susseguirsi di viali alberati, teatri, centri congressi e tantissimi edifici dedicati alla ginnastica, alla danza e agli sport di lotta che sono le specialità in cui da queste parti riescono meglio ad imporsi ai massimi livelli al mondo.

Hammam
L’Hammam tradizionale di Baku è un insieme di arredi bizzarri. Foto © Roberto Gabriele

La gente passeggia nelle strade, ci sono persone che fanno sport e quelli che frequentano gli hammam decorati con un improbabile stile kitch di dubbio pregio ma di grandissimo fascino. E’ evidente un certo benessere generale, le persone lavorano tutte, la disoccupazione non è un problema ad ogni angolo di strada c’è un poliziotto di piantone, persino le stazioni della metropolitana hanno un bile di binario per ciascun senso di marcia, una cosa mai vista in nessun’altro posto al mondo. Hanno belle auto, vestono bene e c’è ancora il piacere di andare a fumare nei locali del centro per chiacchierare dei loro affari, sembra di stare nei caffè di Parigi di un secolo fa, ma senza rinunciare ai piaceri della modernità.

La zona periferica di Baku perde l’eleganza del centro e lascia il posto ad enormi palazzoni di stile ex sovietico. Foto: @ Roberto Gabriele

Fuori dal centro

Andando in periferia la situazione cambia completamente. Dalle boutique scintillanti del centro prendiamo la metropolitana che ha due linee e in poche stazioni, veniamo letteralmente trasferiti come in una macchina del tempo all’epoca della ex Unione Sovietica. Qui tutto ci riporta a quell’epoca, è un’altra città, un’altra epoca storica. E invece no, sono le due facce della stessa medaglia. Qui all’ultima fermata della LINEA ROSSA dallo sfarzo e dalla modernità dei palazzi amministrativi del centro si passa improvvisamente ai giganteschi mostri di cemento armato arruginito che assumono le sembianze di dormitori di 20 piani e 10 scale con centinaia di appartamenti e migliaia di persone che ci abitano.

Ecco… qui possiamo vedere, almeno in parte, quello che ci immaginavamo dell’Azerbaijan prima di partire.

periferia di Baku
Le case popolari di Baku nelle quali si vive ancora come un tempo. Foto: © Roberto Gabriele

La gente in questa zona della città ha una vita frenetica, i palazzi enormi e impersonali in cui vivono, condizionano molto il loro stile di vita. Qui si esce a piedi, senza badare al look, ci si veste per andare al lavoro negli impianti petrolchimici o per andare a fare la spesa al supermercato sotto casa. Di auto ce ne sono poche e quelle che ci sono sono vecchie e malandate. In strada al posto delle scintillanti boutique del centro ci sono fetide palestre e sale bingo, negozi di barbiere e di elettronica, fast food e una serie infinita di negozi di abiti da sposa, talmente numerosi che ci domandiamo quanti possano essere i matrimoni in un anno…

petrolio
Un lago di petrolio: l’Azerbaijan. è uno dei più grandi produttori di oro nero al mondo. Foto: © Roberto Gabriele

Gas, Petrolio e un mondo artigiano

Uscendo da Baku troviamo un’altra sorpresa: l’Azerbaijan è uno dei più forti produttori di petrolio e gas naturale al mondo e ce ne rendiamo conto immediatamente. Qui ci sono laghi di oro nero a cielo aperto: delle pozze putride sotto le quali da oltre 100 anni si estrae il greggio che viene esportato in tutto il mondo. Anche nel Mar Caspio ci sono giacimenti di gas a pochi metri dalla riva e vicinissimi al centro città. La zona estrattiva è molto limitata… una ventina di chilometri di diametro proprio intorno alla capitale: qui ci sono migliaia di pozzi, non ci sono recinti ma sono controllatissimi dal personale che non manca mai.

La terra è grassa, molle, priva di vita perchè impregnata di preziose sostanze, ci sono le Yanar Da, le montagne di fuoco dalle quali ininterrottamente da oltre mille anni escono lingue di fuoco e che sono state luogo sacro per la religione zoroastra. Il gas che fuoriesce dalla collina prende fuoco per autocombustione e crea un fronte di circa 12 metri di fiamme che venivano venerate dal popolo.

Azerbaijan
Un fabbro che lavora ancora in modo tradizionale. Foto: © Roberto Gabriele

Ci siamo poi allontanati da Baku in direzione di Sheki per fermarci tra le aspre montagne che sono intorno a Lahic. Qui abbiamo visto la parte meglio conservata dell’Azerbaijan, dove la gente vive come una volta in una società agropastorale che a stento e solo negli ultimissimi tempi si sta aprendo al turismo e alla modernità.

Qui puoi trovare solo qualche albergo, la connessione wifi e qualche ristorante, il resto è ancora tutto come una volta: un salto nel tempo alla nostra Italia del secondo dopoguerra…

I ritmi di vita sono sereni e rilassati, il venerdì si va alla moschea, la gente parla in strada o gioca a domino mentre sorseggia un bicchiere di the fumando liberamente nei locali pubblici.

Foto: © Roberto Gabriele

Qui si possono fare amicizie fatte di sguardi e di sorrisi, la gente non parla inglese ma ha voglia di socializzare e allora ti accoglie come può offrendoti un bicchiere di the o un caffè o chiedendoti una sigaretta in cambio. Per accogliere qualcuno non serve aver studiato le lingue, non serve neanche avere chissà quali discorsi da fare, a volte basta sedersi a tavola con un estraneo che ti fa capire che ha piacere di stare con te. E’ una sensazione molto forte, alla quale noi non siamo abituati, ma che invece è invece importante saper apprezzare.

Questo è il mio Azerbaijan, un Paese pieno di sorprese e tutto da scoprire.

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Pozzi di petrolio in pieno centro città a Baku. Foto: © Roberto Gabriele

Roberto Gabriele

Monastero buddista in Mongolia

Ritenevo di aver preparato con cura il Viaggio in Mongolia, approfondendo sia la vita della popolazione nomade sia la straordinaria offerta naturalistica di questo meraviglioso e sconfinato Paese; colpevolmente, non avevo approcciato in maniera esaustiva il Buddismo ed il rapporto tra i Fedeli ed i Monaci Buddisti.

Chissà, forse inconsciamente , ho preferito calarmi in maniera asettica ed “epidermica” nella fantastica emozione di fotografare questo mondo di pace ed interiorità.

Varcare la soglia di un Tempio Buddista, significa utilizzare una sorta di Stargate che ti proietta in una dimensione fatta di serenità, trascendenza, compartecipazione ed assoluto amore per il prossimo e per la natura; osservare i Monaci che si preparano all”ingresso nel Tempio ed assistere al “servizio” durante il quale un Lama per un fedele recita una sutra con il tipico canto gutturale del Buddismo Tibetano, inizialmente mi ha quasi fatto dimenticare la “fotografia” provocandomi una diffusa e persistente sensazione di benessere da non interrompere.’

Buzkashi o Kupkari

Durante le tre edizioni del nostro Viaggio Fotografico in Uzbekistan i nostri Viaggiatori si sono espressi con foto e video sul Buzkashi, che da queste parti chiamano Kupkari.

Tre nostri Compagni di viaggio ci hanno dato la loro personale lettura di una giornata straordinaria:

  • Roberto Manfredi
  • Francesco Dolfi
  • Lia Dondini Taddei

E per finire in fondo alla pagina ci sono anche i video di:

  • Giorgio Sega
  • Luca Maiorano

Scopri tutto in questa pagina e guarda come hanno trattato lo stesso argomento in modi tanto diversi…

Buzkashi o Kupkari, cosa è?

Roberto Manfredi

Acchiappa la capra! Questo è il significato della parola uzbeka Kupkari e della corrispondente parola parsi Buzkashi. Si tratta di un antico sport equestre molto popolare in Uzbekistan e in molti paesi dell’Asia centrale. 

In un grande campo molte decine o, spesso, centinaia di cavalieri si contendono la carcassa di un agnello o di una capra. Vince chi riesce a far cadere la carcassa in un’area preassegnata. Il giocatore che ci riesce viene premiato, poi il corpo dell’animale viene riportato al centro del campo e si ricomincia.
Ci sono molte varianti di questo sport: può essere giocato da due squadre contrapposte o individualmente, tutti contro tutti.
In alcuni paesi, come in Kazakhstan (dove il gioco si chiama kökbörü), si svolgono addirittura dei campionati e le squadre si affrontano indossando delle vere e proprie uniformi. Nei villaggi dell’Uzbekistan si pratica quella che probabilmente è una delle versioni più antiche e genuine: si gioca individualmente e l’abbigliamento dei concorrenti è libero è assolutamente funzionale.
Molti cavalieri indossano dei caratteristici caschi di stoffa imbottita, residuati militari usati un tempo dai carristi dell’Armata Rossa sovietica.
L’Imam benedice i fantini

Buzkashi

La contesa della pecora nella mischia dei fantini
La corsa per deporre la pecora
Si lotta per contendersi il trofeo
Il fantino con la sua preda corre verso la vittoria inseguito dagli altri concorrenti
La grande fuga trascinando la pecora spesso finisce fuori dal campo di gara
Incidente fortunatamente senza conseguenze…
Sportiva amicizia tra concorrenti
Il fantino ritira il suo premio
Un uomo conta i soldi vinti con una scommessa

Le regole:

Le regole sono poche: è proibito colpire un avversario con il frustino e cercare di farlo cadere da cavallo. Per il resto è tutto permesso. Il cavaliere in temporaneo possesso della carcassa la trattiene stringendola al corpo del cavallo con una gamba, mentre i concorrenti lo inseguono e cercano di affiancarlo per strappargliela, e per farlo spesso assumono posizioni acrobatiche sul cavallo in corsa.
I cavalli vengono spronati con frustini ottenuti dalle cinghie di trasmissione dei motori a scoppio, e quando i giocatori necessitano delle mani per contendersi la carcassa, i frustini vengono tenuti tra i denti.
Il pubblico segue il gioco in posizioni sicure, dall’alto di un crinale o dietro una barriera di veicoli, facendo il tifo per i propri beniamini e scommettendo sui vincitori. I premi, nella partita che abbiamo visto, erano piuttosto ruspanti: una batteria di stoviglie, un servizio da tè o un cuscino in memory…
Il Kupkari è un gioco antico di secoli e le sue origini non sono documentate, ma quasi certamente è nato nel bacino del fiume Amo Darya, il più lungo dell’Asia centrale, che separa gli attuali Uzbekistan e Turkmenistan.
Pare che gli invasori mongoli di Gengis Khan depredassero i villaggi afferrando al volo capre e pecore mentre li attraversavano sui loro cavalli in corsa; le vittime dei saccheggi avrebbero poi cercato di recuperare il loro bestiame allo stesso modo, cavalcando attraverso gli accampamenti mongoli di corsa.
Gli ovini sarebbero stati così contesi cavalcando velocemente; queste contese sarebbero poi state riprodotte per gioco, facendo così nascere il Kupkari.
Il Kupkari si gioca in occasione di feste o matrimoni, quando inizia e finisce la stagione agricola e in molte altre occasioni. Il match raccontato da queste foto si tenne presso Samarcanda il 21 marzo, giorno del Nowruz, capodanno del calendario zoroastriano.
Infine una curiosità: in Argentina si pratica un gioco simile al kupkari, detto “pato” dove al posto della carcassa si usa una palla dotata di sei grosse maniglie.

 

Francesco Dolfi

Kupkari o Buzkashi, secondo i paesi.

E’ il nome di un antico gioco equestre che ha origine in Asia centrale dove è ancora diffuso e praticato in occasione di festività ed eventi speciali.

Con « viaggio fotografico » abbiamo potuto assistere a questa straordinaria festa, non lontano da Samarcanda, in Uzbekistan, in occasione del Navruz che celebra l’equinozio di primavera e l’inizio del nuovo anno, secondo una tradizione che risale ai tempi del zoroastrismo .

 

Niente arene, piazze o stadi, con scalinate, balconi o tribune. Il Kupkari si gioca all’interno di una spianata stepposa, delimitata da dossi di terra, dove si assiepa il pubblico, soprattutto donne e bambini, che incitano i valorosi cavalieri, rigorosamente uomini, che si trovano più in basso e si contendono la carcassa di una pecora o un montone per portarla e depositarla oltre il traguardo.

In premio ci sono somme di denaro, beni di consumo e il riconoscimento del proprio valore. Come in ogni competizione equestre che si rispetti, non mancano gli allibratori e le scommesse.

Intorno alla competizione ci sono gli stand gastronomici per ristorarsi dopo la gara
Un fantino vittorioso va a ritirare il suo premio
La tribuna d’onore è sui cassoni dei camion
Momenti della gara
La pecora contesa tra i fantini
una vera e propria mischia di uomini e cavalli: hanno appena raccolto la pecora da terra e cercano il modo di iniziare la loro fuga
La corsa
La contesa
I fantini ricevono la benedizione dell’Imam
Il pubblico

Uno sport pericoloso:

La giuria e gli ospiti privilegiati, quali eravamo noi fotografi venuti da lontano, trovano posto a bordo di autocarri che, disposti in fila, delimitano l’area di della competizione. Gli stessi offrono pure un riparo dagli impetuosi assalti dei cavalieri e dagli zoccoli dei loro cavalli.

Il gioco è piuttosto violento e le regole concedono di tutto, compreso l’uso di un improbabile frustino, che i cavalieri stringono tra i denti, usato per colpire l’avversario e per disarcionarlo.

Per proteggersi, i cavalieri indossano dei copricapo di ogni genere, tra questi un vecchio e bizzarro berretto da carrista, reliquia dell’era sovietica.

La competizione comincia con i saluti di rito e una preghiera, un trattore trasporta la carcassa al centro del campo e la competizione ha inizio.

L’energia sprigionata dai cavalli al galoppo e dai cavalieri che lottano, corpo a corpo, impennando i loro destrieri è davvero impressionante e coinvolgente.

Il Kupkari non è soltanto una competizione equestre, ma è anche e soprattutto una grande festa di paese. Non abbiamo assistito ad un evento confezionato per i turisti, bensì ad un momento di indimenticabile folklore autentico e genuino.

di Francesco Dolfi

 

Lia Taddei

Il Buzkashi in Uzbekistan

Il Buzkashi (chiamato anche Kupkari) è uno sport equestre praticato in tutta l’Asia centrale e considerato sport nazionale in Afghanistan.


In Uzbekistan è generalmente praticato in determinate occasioni come matrimoni o feste nazionali.
E’ praticato in un grande campo; l’obiettivo è quello di impadronirsi della carcassa di una capra, portarla lungo un percorso obbligato e lanciarla oltre un’area definita. I giocatori utilizzano una piccola frusta in pelle grezza che viene tenuta tra i denti quando non è usata.

 

Gli uomini gareggiano sotto gli sguardi delle loro donne
Panning
La vittoria
Scene di gara

I fumi del pranzo invadono il campo di gara
Durante la benedizione dei fantini pregano anche gli spettatori
Il campo di gara è uno spiazzo non delimitato nè segnato in alcun modo

La tradizione:

Non esistono regole scritte, sono per di più tramandate oralmente e frutto di una lunga tradizione ed è concesso di tutto, da colpire l’avversario con il frustino a farlo cadere da cavallo E’ sicuramente uno sport piuttosto violento, ma fa parte delle tradizioni locali e ha origini antiche.

Si pensa che sia stato introdotto dai Mongoli nel 12mo – 13mo secolo.
Il Buzkashi in Uzbekistan viene organizzato in modo spontaneo e non è sempre facile conoscere il luogo esatto e l’ora in cui si svolgerà ,ma grazie alla nostra preziosa guida Bek siamo riusciti a partecipare a questo evento.


L’atmosfera che si respira è festosa, la gente locale, ammassata attorno al campo, tifa, scommette, ma anche si cucina carne alla brace e i locali ti invitano a mangiare con loro e a bere (vodka!).

C’è fierezza e determinazione nel volto degli uomini che a cavallo sono pronti a tutto pur di raggiungere l’obiettivo e conquistare così il premio e dimostrare il loro coraggio.

di Lia Taddei

Giorgio Sega

Luca Maiorano

Vietnam di Ornella Massa

Raccontare un viaggio con delle immagini: una bella scommessa per un fotoamatore dilettante come me. Ma ci provo perché il viaggio in Vietnam dell’ottobre scorso ha avuto delle particolarità.

La meta era, sulla carta, interessante ma non quanto alcuni paesi limitrofi del sud est asiatico che vantano insigni siti archeologici.

E’ un paese  di antichissime tradizioni ma devastato da guerre che hanno influenzato profondamente il suo sviluppo.

Ci sono grandi e caotiche città con moderni grattacieli che però assomigliano incredibilmente ad altre città di recente sviluppo.

Nonostante tutto ciò, la nostra visita, seppur limitata nel tempo, dodici giorni, ci ha permesso di avvicinarci al cuore profondo del paese e di sentirne il respiro.

Ho avuto conferma delle mie sensazioni leggendo i racconti di Nguyên Huy Thiêp nella raccolta “Vietnam Soul”. Ambientati nei villaggi di montagna lontano dai grandi centri cittadini narrano della lotta quotidiana della gente per vivere, della fatica di affrontare le malattie e il dolore , di soddisfare i normali bisogni.

Storie di piccole comunità si alternano a figure solitarie ma sempre dalla narrazione traspare grande forza e senso di solidarietà.

Nelle mie foto ho privilegiato scatti a uomini e donne in ambiente di lavoro, un’umanità attiva, giovane di età che sprigiona energia vitale e affronta con coraggio le difficoltà della vita. Senza tralasciare anche un momento dedicato al sentimento religioso.

Ornella Massa

Facebook: https://www.facebook.com/ornella.massa.372

 

Ornella Massa intervistata durante il nostro Viaggio Fotografico in Vietnam

https://youtu.be/m0Oxk_YTQ8U

 

Ritrovamento dipinto a Samarcanda

Il rinvenimento di un quadro dal valore inestimabile a Samarcanda

Nell’ambito delle spedizioni uzbeko – giapponesi è stato scoperto un quadro dell’VIII secolo, riporta Uzbekistan Today. L’artefatto antico è stato rinvenuto nella fortezza Kafirkala è rappresenta un tabellone che raffigura un rituale dello Zoroastrismo.

Il ritrovamento a Samarcanda prova l’importanza dell’Uzbekistan come una regione situata sulla Via della Seta e raffigura uno strumento musicale situato nell’edificio del tesoro “Shoso-in” nella città di Nara in Giappone.

La fortezza Kafirkala si trova a trenta chilometri a sud-est del sito di Afrosiab. La presenza dei fori da chiodi di ferro indica che il quadro era attaccato al muro e si presume che all’epoca si trovasse nella sala del sovrano. 

“L’immagine è composta da quattro righe. Nella riga superiore è raffigurata la dea di Sogd “Nana”, seduta sul leone, nella seconda riga i musicisti suonano l’arpa e lo strumento a corde “biwa”, entrambi conservati nello “Shoso-in”. La riga più bassa raffigura l’altare del fuoco. Si ritiene, che la storia dell’arpa abbia avuto l’inizio in Assiria, nella Mesopotamia Settentrionale e che lo strumento musicale sia stato trasportato dall’Asia Centrale alla Cina e al Giappone”.

Turismo attrezzato in Uzbekistan

Creazione della prima zona turistica libera “Chorbo’q”  in Uzbekistan

Gazeta.uz

Il Presidente della Repubblica dell’Uzbekistan Shavkat Mirziyoyev ha firmato il decreto sulla creazione della zona turistica libera “Chorbo’q”.

La prima zona turistica sarà creata all’interno del territorio ricreativo e di resort “Chimgan-Chorbo’q” con nuove infrastrutture d’ingegneria, moderni complessi alberghieri, centri di benessere e culturali, commerciali e d’intrattenimento e altre strutture turistiche.

Il decreto prevede la preparazione degli itinerari turistici unici, tenendo conto delle possibilità ambientali della regione, sviluppando un’adeguata infrastruttura di trasporto, garantendo la disponibilità di trasporti, l’introduzione di nuovi mezzi di trasporto nella regione (treni, treni elettrici, autobus), compresi i mezzi di trasporto alimentati con fonti di energia rinnovabile, l’espansione delle rotte di trasporto passeggeri e l’organizzazione del suo ininterrotto funzionamento.

Si prevede di creare ulteriori condizioni per la sicurezza del soggiorno dei turisti, attrezzando le infrastrutture turistiche con sistemi di allarme e videosorveglianza, fornendo assistenza in situazioni d’emergenza e attivando un singolo database di informazioni sui turisti, che arrivano nel territorio della regione. 

È prevista la realizzazione dei progetti sulla creazione di un sistema ecologico unico, introducendo, in via sperimentale, i nuovi sistemi di risparmio energetico e le tecnologie alimentate con fonti di energia rinnovabile e alternativa.

La zona turistica libera sarà realizzata per il periodo di funzionamento di 30 anni con la possibilità di una successiva estensione. Il territorio della zona turistica e le imprese registrate come partecipanti sono soggette alle disposizioni della legislazione sulle zone economiche libere, comprese le agevolazioni e i benefici stabiliti.

Per cofinanziare progetti d’investimento, attuati nella zona turistica libera, il Fondo per la Ricostruzione e lo Sviluppo dell’Uzbekistan concederà una linea di credito agevolato per un importo complessivo di 100 milioni di dollari statunitensi con le condizioni flessibili di rimborso del prestito e degli interessi.

Attualmente, nella regione di Tashkent operano 120 organizzazioni di servizi turistici, tra cui 15 tour operator, 45 alberghi con la capacità di accogliere 2440 turisti al giorno, 71 sanatori e aree ricreative.

Vendita oro ai turisti in Uzbekistan

L’Uzbekistan pianifica di autorizzare la vendita di lingotti d’oro ai turisti

Nei prossimi due mesi sarà preparato il progetto di decisione governativa che consentirà la vendita di lingotti d’oro agli stranieri e semplificherà la loro esportazione all’estero.

Per il prossimo futuro si prevede anche la vendita di lastre in oro di vari tagli da dieci a duecento grammi.

Si prevede di esportare gioielli e oggetti preziosi per quasi 14 milioni di dollari statunitensi nel 2020.

Gestione privata aeroporti Uzbekistan

L’Uzbekistan per la prima volta nella storia affida la gestione di un aeroporto alla società privata. L’aeroporto internazionale “Karshi” (regione di Kashkadarya) sarà assegnato alla società specializzata nella gestione di aeroporti internazionali.

La risoluzione del Presidente Shavkat Mirziyoyev “Sulle misure per lo sviluppo del turismo in entrata” stabilisce l’uscita di quest’aeroporto internazionale dalla società NAC (Uzbekiston Havo Yullari) e l’introduzione del “Cielo aperto” sul suo territorio con il coinvolgimento delle compagnie aerei low cost.

Visto per Uzbekistan

L’Uzbekistan ha abolito l’obbligo del visto per i cittadini di sette paesi. Introduzione del visto elettronico dal 1° luglio 2018

Dal 10 febbraio 2018 L’Uzbekistan introduce il regime senza visti per un ingresso di trenta giorni ai cittadini di Israele, Indonesia, Corea del Sud, Malesia, Singapore, Turchia e Giappone.

Inoltre, è stata semplificata la procedura di rilascio del visto turistico per altri trentanove paesi, tra cui il Vaticano e la Malta:

– annullamento dell’obbligo di presentare al Ministero degli Affari Esteri dell’Uzbekistan il voucher turistico o la lettera d’invito da parte di un cittadino uzbeko o un’impresa operante in Uzbekistan;

– rilascio del visto in due giorni lavorativi, escluso il giorno di accettazione della richiesta del visto.

Si prevede di semplificare la procedura del rilascio del visto in cinquantuno paesi (da 15 a 51).

Inoltre, dal 1° luglio 2018 l’Uzbekistan prevede il rilascio del visto elettronico per i cittadini stranieri. Il visto elettronico sarà rilasciato in aeroporti del paese in conformità con le richieste in forma scritta presentate dai cittadini stranieri per avviare la procedura del rilascio del visto d’ingresso, indipendentemente dalla presenza della rappresentanza diplomatica della Repubblica dell’Uzbekistan nel paese d’origine.

I pagamenti di tariffe e oneri inerenti al rilascio del visto elettronico si potranno effettuare con la carta di credito sui circuiti di pagamento internazionali Visa e MasterCard.

Se ti serve il visto…

Per il tuo visto italiano per recarti in Uzbekistan clicca qui: http://evisa.mfa.uz/evisa_en/

Turismo Ecologico in Uzbekistan

Uzbekistan rimuove restrizioni  per il turismo ecologico, estremo e in auto

Secondo il servizio stampa del Comitato Statale per il Turismo della Repubblica dell’Uzbekistan, al fine di creare le condizioni confortevoli per i turisti stranieri e per le strutture ricettive, il Ministero degli Affari Interni della Repubblica dell’Uzbekistan ha annullato l’obbligo di compilare il libro di registrazione e di presentare resoconti cartacei sui turisti da parte degli alberghi e altre strutture turistiche che passano all’utilizzo del sistema informativo “E- Mehmonhona”.

L’introduzione di nuove disposizioni per la registrazione degli ospiti e l’annullamento delle restrizioni sono validi per i turisti che arrivano in Uzbekistan per il turismo ecologico, estremo e per i turisti che viaggiano in auto:

1. Il software “E-Mehmonhona” (E-Hotel) consente di inserire le informazioni necessarie via Internet ed è stato introdotto per la registrazione rapida e pratica degli ospiti negli alberghi e altre strutture ricettive.

2. È stata semplificata la procedura di registrazione per i turisti stranieri durante i tour ecologici o viaggi in auto nel paese, trasferendola in un formato elettronico. Gli elenchi elettronici di turisti completi di estremi del passaporto, presentati dagli operatori turistici, comprensivi degli itinerari, soste di pernottamento durante i viaggi, saranno equiparati al permesso di soggiorno temporaneo se:

a) accompagnati da guida turistica o da istruttore all’interno del tour organizzato dall’agenzia turistica al di fuori delle aree popolate, se il tour o parte di esso non supera i dieci giorni;

b) da stranieri su auto privata, in motocicletta, in bicicletta, a piedi o in gruppo su autobus del tour organizzato dall’agenzia turistica.

3. “Campeggio”, “mezzo di trasporto, convertito in alloggio per il pernottamento” sono stati inclusi nella categoria “struttura ricettiva”.

I turisti stranieri, in sostanza, non sono più soggetti alle restrizioni in caso di viaggi attraverso le montagne, steppe e deserti dell’Uzbekistan e se arrivano con un mezzo di trasporto, attrezzato di posti letti o con la roulotte.

Uzbekistan Airways e Alitalia

Uzbekistan Airways e Alitalia hanno attuato l’accordo su Interline e Code Share, facilitando l’attracco dei voli nazionali di compagnie aeree partner in Italia e in Europa

La stipulazione dell’accordo tra le compagnie aeree Uzbekistan Airways e Alitalia ha offerto grandi vantaggi del pieno utilizzo della vasta rete aerea dell’Alitalia. Secondo il nuovo calendario, i voli dell’Uzbekistan Airways da/per Roma e da/per Milano sono garantiti con attracchi bilaterali con i voli italiani interni e voli europei delle compagnie partner.

La modifica del programma dei voli HY – 257/258 Tashkent – Roma – Tashkent e Tashkent – Milano – Tashkent nel 2017 ha consentito di organizzare il trasporto di gruppi di turisti provenienti da Italia e Spagna (Madrid, Barcellona e Valencia) in Uzbekistan sui voli della Compagnia Aerea Nazionale (NAC). Inoltre, secondo il nuovo calendario, i voli della NAC da Roma, che hanno ottenuto l’attracco per i voli del mattino da Tashkent a Urgench, stanno creando un’ulteriore comodità per operatori turistici, rendendo i tour in Uzbekistan più efficienti e razionali.

Dal 27 marzo 2018 la NAC aumenterà la frequenza dei voli dall’Italia per tutta la stagione primavera – estate, aggiungendo il secondo volo da Roma in Uzbekistan (2° e 4° giorno della settimana). Dal 6 agosto al 26 ottobre 2018 sarà aggiunto il secondo volo anche da Milano (1° e 4° giorno della settimana).

Al fine di creare servizi aggiuntivi per i turisti provenienti da Milano e da Roma, sono previsti i voli di linea aggiuntivi con atterraggio a Urgench (Khiva). Se la domanda raggiunge almeno 80 passeggeri per le rotte Roma – Urgench e Milano – Urgench sui voli del 2° giorno della settimana, sarà considerata la possibilità di organizzare altri atterraggi nella città di Urgench anche per le restanti date.

Informazioni: aeromobili moderni e confortevoli, con la scritta “Uzbekistan” a bordo,  eseguono voli regolari in più di 50 paesi del mondo, e voli charter dall’Alaska fino alla Nuova Zelanda. Nel 2016, la compagnia aerea nazionale ha trasportato 2,5 milioni di passeggeri e 43.000 tonnellate di merci. Nel 2017 la NAC ha messo in funzione due nuove rotte: Dushanbe (Tajikistan) e Lahore (Pakistan), così come nuove rotte verso Mumbai (India) e Guangzhou (Cina).

Nel mese di agosto 2016 Uzbekistan Airways ha messo in funzione aeromobili Boeing-787-8 Dreamliner. La NAC in collaborazione con la società Boeing, ha aperto il Centro per la riparazione di materiali compositi degli aeromobili, ampiamente utilizzati nell’industria aeronautica mondiale.

Tutti gli 11 aeroporti del paese sono stati completamenti ricostruiti e modernizzati, ricevendo lo status internazionale. A seguito della modernizzazione e del miglioramento del servizio, il flusso di visitatori stranieri nel nostro paese è aumentato. Gli aeroporti “Tashkent”, “Samarcanda”, “Bukhara”, “Urgench” e altri hanno vinto numerosi concorsi internazionali.

Il Centro logistico intermodale internazionale, creato sulla base dell’aeroporto “Navoi”, è uno dei più grandi e tecnologicamente avanzati complessi di trasporto aereo di merci sul territorio dell’Asia Centrale. Oggi, il Centro collega l’Uzbekistan con i maggiori centri logistici in tutto il mondo: Francoforte, Milano, Bruxelles, Vienna, Saragozza, Oslo, Basilea, Dubai, New Delhi, Teheran, Shanghai e altri.

Prosegue la collaborazione con i partner sudcoreani sulla realizzazione del progetto per la costruzione del terminal passeggeri più moderno dell’Asia Centrale “Tashkent-4”, che avrà una capacità di 1500 passeggeri l’ora. Il nuovo terminal passeggeri sarà messo in funzione entro la fine del 2019.

le Isole Derawan nel Borneo

Sono passati tanti anni, da luglio 2007 quando ho fatto questo viaggio che ormai posso definire “vintage” nelle Isole Derawan.

Andiamo per ordine… ho sempre amato i viaggi antropologici con etnie e festival particolari per fotografare le tradizioni, gli usi, i costumi e le culture lontane, diverse dalla mia. Scovai un itinerario molto particolare che si svolgeva nel Borneo e comprendeva giungla e isole completamente disabitate.

Questi sono gli abiti tipici dei giorni di festa e usati un tempo per la caccia, la gente li indossa volentieri anche su richiesta.

DOVE SIAMO:

Il Borneo è la terza isola più grande del mondo ed è divisa tra una piccola parte costiera in territorio malese e la maggior parte della superficie, tutta di giungla impenetrabile si chiama Kalimantan ed appartiene all’Indonesia, ed è proprio qui che siamo andati: in un piccolo arcipelago di isole tropicali sconosciute al turismo.

Le Isole Derawan sono 6 e solo 2 di queste sono abitate, le altre sono completamente deserte e per vederle occorre organizzarsi bene. Quando andammo, lo facemmo per puro desiderio di esplorazione, per il piacere della scoperta, di poter vedere qualcosa di esclusivo, un paradiso inesplorato. All’epoca non esistevano neanche reality come quelli che ci sono ora sulle varie isole deserte, una volta trovata la location il resto era da organizzarsi sul campo. E così facemmo.

Non era un viaggio semplice da organizzare: innanzitutto avevamo bisogno di una guida specializzata che sapesse condurci in posti così sperduti in cui ogni imprevisto può trasformarsi in un problema o una tragedia. 11 persone che arrivano dall’Italia hanno necessità di muoversi in sicurezza, dovevo prendermi cura di tutto per fare una fantastica esperienza.

Nelle due isole abitate delle Derawan, naturalmente c’è la scuola, ne abbiamo approfittato per andare a fare qualche scatto. Foto: © Roberto Gabriele 2007

LA GRANDE AVVENTURA:

La prima cosa imprescindibile della quale occuparsi è l’acqua potabile… Eh già… Nella giungla l’acqua non manca: la prendi dal fiume ed è pulitissima, ma nelle isole deserte circondate dal mare, l’acqua da bere è un grosso problema, nessuno aveva voglia di raccogliere quella piovana che nessuno poteva assicurarmi che ci sarebbe stata, nonostante il monsone.

Ho fatto quindi due conti sul fabbisogno giornaliero e ho preso acqua in bottiglie di plastica che bastassero per tutti e fossero più che sufficienti senza sprechi. 3 litri a persona per 11 persone per 8 giorni…. fanno…. 44 casse di acqua da 6 bottiglie! Un numero decisamente impressionante, ovviamente per trovarle prima di partire è stato difficile nel porticciolo di Tarakan, l’unica abitata tra le Isole Derawan, ma questa è la parte divertente del viaggio: abbiamo preso un pulmino e ci siamo fatti portare a fare la spesa in un supermercato più grande. In questi posti, pagando pochi spicci puoi ottenere qualsiasi servizio inizialmente non previsto.

Quando cerchi di immaginare il paradiso, forse potrebbe venirti in mente un posto come questo. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Anche i viveri non sono stati una cosa semplice da gestirein un arcipelago deserto come le Isole Derawan: le verdure non si sarebbero conservate per 10 giorni fuori dal frigo, idem per le uova, formaggi non se ne trovano perchè in zona non ne producono, ho risolto il problema anche della conservazione con i famosi formaggini con la mucca disegnata sulla scatola. Poi scatolame di mais e tonno locale e fagioli e le solite patate che non mancano mai nel menu di sopravvivenza. Immancabile la pasta…. di grano tenero, quella che noi italiani amiamo tanto, quella che si incolla e si disfa impastandosi nel piatto solo per condirla… ma non avevamo alternative… Ci rimaneva il pesce che avremo pescato in navigazione.

Fatta la spesa siamo andati al porto a prendere la barca… speravamo in un cabinato spartano ma ci siamo resi conto che l’unica cabina presente a bordo era quella del timoniere, nella quale ovviamente era impossibile dormire!!!! Ok, in effetti partiamo per andare a dormire sulle isole, il cabinato non ci occorre: abbiamo le nostre tende per colonizzare le spiagge vergini di queste isole che si trovano due gradi al di sopra della linea dell’equatore. Siamo saliti su una specie di peschereccio di legno che aveva un tendalino sopra, fortuna che non puzzava di pesce marcio: sarebbe stato la nostra casa galleggiante x 8 giorni…

Tipica barca locale ormeggiata in un paradiso nautico. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Inizia la navigazione: circa 100 miglia marine (160 km) da fare sul nostro peschereccio… Impiegheremo una giornata intera per coprire la distanza. Finalmente arriviamo a destinazione: attracchiamo su una delle due isole abitate: Pulau Panjang. Qui troviamo un piccolo villaggio ma molto vivo, c’è il porticciolo e per noi un alberghetto, nulla di lusso ma le stanze sono delle palafitte in mezzo al mare e collegate con un pontile alla terraferma, sotto di noi vediamo delle grandi gabbie in mare…. servono per l’allevamento delle aragoste che mangeremo a cena: una aragosta intera a 7 euro!!!!

Prima di cena decidiamo di fare un aperitivo…. Ci accorgiamo però di quanto sia difficile da spiegare ai locali cosa sia un aperitivo!!!! 10 anni fa anche in Italia non era un modo tanto diffuso come oggi per fare una serata… ma noi avevamo tempo e voglia di spiegarlo al povero ristoratore che aveva avuto la sfortuna di riceverci nel suo locale. Ovviamente la prendemmo tutti a ridere ed era un modo per relazionarci con lui… non aveva nulla che fosse spizzicabile come siamo abituati noi… riuscimmo a farci preparare una frittura di calamari con una birra calda (non c’era il frigo) e quello fu il nostro aperitivo di tendenza. La location in riva al mare, su un’acqua trasparente e cristallina e circondati dal silenzio rotto solo dalle onde erano invece la cornice perfetta per una serata fantastica prima di iniziare il tour.

Ultimo avamposto semicivilizzato su una delle due isole abitate delle Derawan. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Al mattino successivo prendemmo il nostro peschereccio con il pieno di benzina fatto alla volta di Pulau Maratua, la prima delle isole deserte in cui sbarchiamo. Eh, già… il nostro è un vero e proprio sbarco: essendo deserta l’isola, evidentemente non c’è neanche un approdo: la nostra barca oltrepassa la barriera corallina, si avvicina a riva e ci tuffiamo nelle acque basse per procedere a piedi fino alla spiaggia. Naturalmente in questo modo scarichiamo a mano l’acqua, le tende, i viveri e… le fotocamere!!!!

derawan

Siamo, ovviamente da soli, sulla spiaggia di un’isola deserta nella quale non c’è nulla, non esiste neanche pensare alla copertura del segnale per i cellulari, nulla di nulla che ci avvicini in qualche modo alla civiltà, quando sarà buio tra le tende vedremo grazie alla luna e al fuoco che accenderemo sulla spiaggia usando i rami di palma secchi che raccoglieremo nel pomeriggio. Totalmente isolati, niente acqua se non la nostra, nessun rifugio, niente corrente elettrica e in caso di una qualsiasi emergenza sanitaria che può sempre capitare, siamo ad almeno 10 ore di navigazione dal più vicino ospedale. Mi raccomando con il gruppo di… evitare incidenti!!!!

La nostra barca all’ancora nel primo mattino. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Stare su un’isola deserta è eccitante, lo senti, lo sai che quell’angolo di paradiso in terra è reale, e per quel giorno è solo tuo! Un’isola deserta è destabilizzante, perchè sai di essere da solo e vedi realizzato un sogno che pensavi potesse esistere solo nella tua fantasia. Lontanissimo da tutto e da tutti. Sei da solo con te stesso! Il tempo si dilata, le giornate vengono cadenzate solo dal ritmo della natura, dal sorgere e calare del sole, dal caldo, dalle piogge e dalle maree. Ti accorgi che improvvisamente cambia la tua scala di valori e di priorità. Lì non ti servono soldi nè tecnologia, nè auto, nè abbigliamento, ti basta la fotocamera, l’acqua, qualcosa da mangiare e per accendere il fuoco.  Oltre alla benzina nella barca per tornare a casa… Fine. Non hai bisogno di altro.

Questo tratto di sabbia che ci divide dagli alberi che si intravedono all’orizzonte, 6 ore prima era mare aperto, adesso con la bassa marea possiamo attraversarlo a piedi. Foto© Roberto Gabriele 2007

LA SCOPERTA DEL MARE nelle Isole Derawan:

Personalmente non amo il mare, non mi piace stare in spiaggia a prendere il sole, ma qui è tutto diverso e quindi stimola la mia curiosità di fotografo e di viaggiatore. Mi sono cercato delle occasioni per fare le mie foto e ho scoperto la bassa marea, un fenomeno del tutto normale in natura a qualsiasi latitudine, tranne nel momento in cui mi accorsi che su quell’isoletta che vedevo davanti a me quella mattina, nel pomeriggio potevo andarci a piedi!

E così facemmo: raggiungemmo l’isoletta camminando su un prato di stelle marine che erano rimaste sul fondo sabbioso del mare in certe pozze di acqua lasciate dal mare quando si ritirava. Lì ci fu un incontro piuttosto particolare… sul lato opposto dell’isoletta vedemmo da lontano una barca ormeggiata e 4-5 uomini tutti armati di pugnale che camminavano sulla spiaggia. Essendo quella una zona di pirati, il primo pensiero naturalmente fu al peggio: se fossero stati lì per noi non avremmo avuto scampo, come minimo ci avrebbero rubato tutto. Ma intuii che se fossero stati lì per noi sarebbero venuti direttamente sulla nostra isola e che quella non mi sembrava una azione di attacco. Infatti li avvicinammo nonostante tenessero i pugnali in mano ed erano dei semplici cercatori di ostriche che approfittavano della bassa marea per raccogliere i preziosi mitili da vendere ai ristoranti.

Gli uomini armati di pugnale: pensavamo fossero assassini o pirati, ma erano per fortuna solo dei raccoglitori di ostriche sbarcati per lavoro sulla nostra isola deserta. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Nella fascia equatoriale fa buio presto: intorno alle 18, tutto l’anno. E così poco dopo quell’ora si cena e si resta a rimirare il cielo stellato e ad ascoltare lo sciabordio delle onde che di notte si colorano dei bagliori verdi generati dal plancton. Rimaniamo estasiati dallo spettacolo e nessuno ha il coraggio di dire banalità…. Non ci sono neanche zanzare, per cui ci possiamo addormentare sulla spiaggia, fuori dalle tende e attendere l’alba arrivare sulle Isole Derawan prima che in ogni altra parte del mondo…

Non saprei il nome di questo simpatico animaletto con gli occhi grandi che corre con le zampette fuori dall’acqua e nuota velocissimo quando vi è immerso. Foto© Roberto Gabriele 2007

Quando fa giorno abbozziamo una specie di colazione: qualche biscotto e una tazza di the, non abbiamo altro e questo sarà il nostro menù per i prossimi 10 giorni. La giornata prosegue con l’esplorazione dell’intricata foresta di mangrovie che ricopre l’isola. Scopriamo dei curiosi animaletti che assomigliano a delle velocissime lucertole anfibie con gli occhi grandi che respirano fuori dall’acqua ma che sono velocissime a tuffarcisi per difendersi se temono il pericolo…

Scopriamo il piacere dell’ozio filosofico, della noia dialettica, impossibile fare programmi, non ci sono alternative che lasciar passare le ore della giornata continuando a pensare se davvero sia bello vivere in paradiso. Tra un silenzio e l’altro, tra una palma e un varano, ogni tanto qualcuno si determina a rompere gli indugi e tuffarsi in mare armato di maschera, boccaglio e pinne per fare un pò di snorkeling nella barriera corallina.

Anche qui si aprono per me dei mondi nuovi e inesplorati: non avevo mai nuotato sulla barriera corallina, solo stando con la testa sott’acqua entri in un mondo parallelo: il grande blu. Sotto di me a pochi centimetri ci sono coralli e pesci coloratissimi, uscendo di pochi metri, la barriera corallina sprofonda fino a perdita d’occhio, molti metri più in basso vedo pesci enormi che mi inquietano quanto basta per ritornare nella mia zona di comfort: sopravvivere in un’isola deserta non mi spaventa, le profondità misteriose del mare invece ci riescono benissimo.

TARTARUGHE E ALTRI INCONTRI:

Uno dei ranger ha scavato le uova di tartaruga deposte nel nido per portarle al sicuro da predatori. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Sangalaki è poco più di uno scoglio, sarebbe disabitata se non ci fossero 4 rangers che vivono lì per fare una serie di studi sulle tartarughe marine giganti che arrivano a decine ogni notte per fare il nido e deporre migliaia di uova. Qui è impossibile dormire fuori dalla tenda: le tartarughe ti passerebbero sopra e la cosa non sarebbe bella: un animale del genere facilmente supera i 150 chili! Evitano invece le tende perchè le vedono come ostacoli. La notte in quest’isola però l’abbiamo passata in bianco a guardare lo spettacolo della natura.

Le tartarughe arrivano in spiaggia, e vanno dritte come se sapessero già dove andare a fare il loro nido, e anzi, sicuramente lo sanno benissimo, poi si fermano e iniziano a scavare una buca profonda circa 80 centimetri, appena finita la buca si mettono su di essa in posizione per deporre le uova e poi la richiudono con la sabbia.

Il respiro della tartaruga mentre lavora per deporre le uova è impressionante, è un forte sospiro, quasi un rantolo che si sente forte e deciso nel buio della notte. Tutta la nidificazione dura circa 2 ore. Avviciniamo i rangers che censiscono il fenomeno: quante tartarughe per ciascuna notte, dove depongono le uova, quante ne fanno…. Sono dei giovani ragazzi che vivono qui sull’isola e fanno anche un lavoro duplice di ripopolamento: da una parte prendono alcune uova e le mettono nelle incubatrici per farle dischiudere in modo sicuro lontane dai pericoli, e dall’altra creano delle gabbie sulla sabbia  intorno ai nidi che terranno fino a quando si schiudono le uova, poi proteggeranno alcuni piccoli dai predatori fino a quando arriveranno al mare.

Giovanissimo tartarughino, nato pochi minuti fa, si avvia rapidamente verso il mare dove sarà al sicuro da varani e uccelli predatori. Ne muoiono a migliaia ogni giorno, quelli che si riescono a salvare sono pochissimi. Foto: © Roberto Gabriele 2007

I varani e gli uccelli sono pericolosissimi sia per le uova che per i neonati mentre si avvicinano all’acqua del mare, in quel momento sono vulnerabilissimi: pochi di loro riescono ad arrivare a riva, gli altri piccoli muoiono di stenti solo per uscire dalla sabbia o vengono predati. E’ questa la dura legge della natura.

L’isola di Kakaban famosa per le sue meduse non urticanti. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Pulau Kakaban è un’isola incredibile: anche questa è completamente disabitata, è palesemente il cratere di un vulcano spento che esce dal mare ed è pieno di acqua marina senza alcun collegamento con il mare aperto. Questo ha fatto sì che all’interno del cratere ci sia un lago di acqua marina nel quale l’unica forma di vita sono milioni di piccole meduse non urticanti tra le quali si può nuotare liberi da ogni pericolo.

Sull’isola l’unico pericolo sono invece alcuni piccoli serpenti non velenosi ma tossici, il loro morso non è letale ma occorre fare molta attenzione per non passare qualche ora con grossi problemi… Piazzammo le tende sull’unico spazio disponibile in tutta l’isola che non fosse in pendenza: un pontile di legno che faceva da attracco per le barche.

Tutto bene fino a quando nel pomeriggio iniziarono ad avvicinarsi le nuvole, non erano semplici nuvole da pioggia, lo capimmo subito. Arrivarono dal mare nere, profonde e minacciose. Il tempo passò dal sole al buio in pochi istanti, e rimase oscurato per un’oretta, aspettavo di fare il mio incontro con il monsone. Hai presente il detto della calma che precede la tempesta? Ecco… Improvvisamente dal nulla si alza un vento fortissimo, è un vento che è dato dall’improvviso cambio di temperatura, quasi che Zeus abbia aperto il portone dell’uragano, riusciamo ad entrare in tenda e un minuto dopo il cielo si apre in una secchiata di acqua che attraversa i teli delle tende come se non ci fossero.

Impossibile anche svuotare gli interni della tenda: l’acqua ci sommerge completamente, inutile anche rimanere dentro, tanto vale uscire fuori a lavarsi finalmente per la prima volta dopo una settimana con l’acqua dolce. Sfruttiamo il monsone per una doccia che ci toglie il sale accumulato sulla pelle ma non i ricordi di un Viaggio straordinario oltre i confini dell’immaginario.

Il nostro campo tendato: lo abbiamo montato nell’unico parte pianeggiante dell’isola, il molo di attracco. Foto © Roberto Gabriele 2007

Leggilo su Acqua & Sapone:

Questo Articolo è stato pubblicato sulla Rivista Acqua & Sapone a luglio 2017, sfoglialo sul sito: https://www.ioacquaesapone.it/leggi/?n=asluglio2017#115

L’articolo impaginato sulla rivista a pagina 115.
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Torneremo nel Borneo con Viaggio Fotografico, scopri qui le prossime date: https://viaggiofotografico.it/product/borneo-malese/

New York e Dubai: amore e piacere.

Quando conosciamo una persona (uomo o donna che sia non ha importanza), si puó creare un certo feeling, una sintonia che puó andare avanti o finire, le strade sono infinite, tante quanti gli incontri che possiamo fare.

Ci si guarda, l’aspetto fisico conta, l’occhio deve essere il primo a giudicare, occorre far scattare certe emozioni e queste possono essere delle fortissime reazioni chimiche a catena esplosive oppure possono avvenire con il lavoro costante del tempo, con la conoscenza e la perseveranza.

All’apprezzamento visivo ne segue uno fisico che a sua volta puó dare sensazioni di breve o lunga durata. Ci si puó vedere per una volta o per tutta la vita, dipende dal tipo di reazione emozionale che cerchiamo e da cosa troviamo.

Ci sono persone da amare e persone da sposare. Ecco: dopo aver visto Dubai e New York sento in me questo effetto.

Dubai saprà stupirti con il suo skyline, i suoi colori e la sua perfezione

Dubai è la città che ti prende immediatamente, è la perfezione esteriore alla massima potenza, è una attrazione fatale, impossibile non rimanerne affascinati, stregati. Ne hai sentito parlare, sai che è giovane, ricca, bella, elegante e molto, molto passionale, lo capisci dal primo sguardo: è esagerata e perfetta in tutto, al punto da chiederti come mai sia lì a darsi proprio a te e a tanti altri contemporaneamente e con tanta forza. Dubai sa di piacere, sa vestirsi, ha portamento e sa distinguersi, sa dove vuole arrivare, Dubai è di tutti, non sarà mai solo tua. E lo sai, te ne fai una ragione e la ami per quello che è: oggi a te, domani ad un altro, o anche di tutti contemporaneamente.

Central Park a New York è un enorme polmone verde nel quale rifugiarsi

New York è invece la città matura, indipendente, con una grande personalità, con una sua storia importante fatta di successi e di fallimenti, ha un forte spessore morale che sa affascinarti nonostante sia lì a mostrarti senza vergogna i suoi difetti dei quali sa farsi vanto o sa correggerli. New York è li per te, si concede con generosità a chi sappia accettarne le regole che impone, è per molti ma non per tutti, New York sa stupirti sempre, anche dopo anni e non finisci mai di conoscerla fino in fondo. È spigolosa, dura, difficile da capire, schiva con chi la rifiuta, generosissima di se con chi sappia amarla e accettarla: ogni giorno nuova e diversa, mai uguale a se stessa e sempre in evoluzione. Corre veloce ed è difficile starle dietro: è autonoma, non ha bisogno di te, ma sei tu ad aver bisogno di lei.

La metropolitana sopraelevata di Dubai corre tra i grattacieli per 70 chilometri

Dubai alla fine è un’amante focosissima con la quale vuoi solo godere di meravigliosi istanti senza futuro. New York è una compagna di vita da sposare e con la quale sai di stare bene a lungo.

Con Dubai sai che non c’è storia, non c’è futuro, non c’è rapporto ma è troppo bella per non farla tua almeno per una volta. È una città da vedere, non può mancarti, saprà farsi piacere. È ricchissima ma a buon mercato, adatta a tutte le tasche. Dubai va bene per un rapporto mordi e fuggi con la città.

New York, sospesa tra cielo e terra, sullo sfondo il fascino intramontabile dell’Empire State Building

New York invece te la sposeresti, sai che non ti tradirà mai. Cambierà ma ti piacerà ancora, vuoi invecchiarci insieme e ci torni per vedere come è cambiata e cosa è rimasto, ma sapendo che non sarà l’ultima volta.

Dubai è sconfinata, non è fatta per viverci, ha spazi vuoti per chilometri, impossibile e inutile camminare a piedi

A Dubai manca l’anima, manca la gente. Camminando tra le sue strade ti accorgerai di essere sempre da solo, sembra di vivere in un meraviglioso e iper realistico rendering di architettura, nel quale le persone e le auto servono solo a dare le proporzioni degli edifici. Bella senz’anima. Vedila una volta nella vita, godila fino in fondo e ricordala, fotografala, ma non tornarci.

La Highline di New York: una ex metropolitana sopraelevata è rimasta abbandonata per anni e ora è diventata un giardino pensile in cui passeggiare in centro a Manhattan

A New York invece la cosa più bella è proprio la gente, sempre diversa, sempre cosmopolita, multiculturale e multietnica. A New York non ti sentirai mai solo, i grattacieli hanno quel fascino intramontabile delle cose antiche, è romantica, ti tiene la mano e con le sue strade parallele ti fa sentire al sicuro e consapevole che non ti perderai, anche se è la prima volta che ci vai.

E allora dove ti consiglio di andare? A te la scelta e ricorda: Dubai per una notte, New York per una vita.

Tokyo – Mille Miglia lontano

La decisione del Viaggio Fotografico a Tokyo l’ho presa in cinque minuti circa, sposava perfettamente le mie richieste di andare dalla parte opposta del pianeta e immergermi in una cultura lontana. Il programma di viaggio fotografico mi soddisfaceva in pieno , una settimana intera per cercare di raccontare  quello che avrei visto per le strade della capitale nipponica.

I due mesi precedenti la partenza li ho passati vedendo qualche foto di qualche streeter giapponese, qualche film e leggendo qualcosa sui vari forum fotografici.  La distanza che separa Roma da Tokyo corrisponde a circa 13 ore di volo, ma una volta che ti immergi nella capitale ti accorgi che questa distanza è molto più ampia.

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Appena entri a Tokyo ti sorprendono due cose, una è il silenzio nonostante il traffico infernale, la seconda è la mancanza di indicazioni in inglese. Ti senti subito perso, fai fatica a chiedere informazioni perchè pochissime persone comunicano con la lingua più parlata nel mondo, sembri proiettato in un’altra dimensione.

In ogni luogo si respira una ricerca incessante della perfezione e dell’ordine e il collettivo sembra sovrastare il singolo che lentamente sparisce. Prendendo spunto da tutti questi contrasti si è materializzato il mio progetto fotografico.

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Con il passare dei giorni vedevo che le persone erano sempre più distanti, c’era una sorta di barriera, ognuno andava per la propria strada e anche quando venivano fermate per la richiesta di informazioni sembrava recitassero un copione già scritto, senza andare mai oltre il dovuto.

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Il mio portfolio si è sviluppato inizialmente con l’utilizzo di ombre e neri fortemente contrastati per poi passare  alle silhouette, perchè la silhouette è l’estremizzazione  delle ombre in quanto ne cancella  tutti i dettagli  e la riduce ad una semplice sagoma. Quest’ultima non svela il contenuto, permette di spaziare con la mente e la fantasia nel tentativo di immaginare chi, in realtà, dietro quella sagoma si nasconda. Il giapponese ai miei occhi è apparso così, una persona che lentamente spariva dal mio campo visivo e riuscivo a intravederne solo il profilo.

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Tokyo - Foto: © Luigi Chighine
Tokyo – Foto: © Luigi Chighine

Non  è stato facile sviluppare questo progetto perchè dovevo sfruttare al massimo i tagli di luce  del mattino o il tardo pomeriggio. A mio parere questa tecnica è il miglior modo di rappresentare un Paese che non sembra ancora pronto a  far convivere una mentalità legatissima alle tradizioni del passato con le moderne tecnologie.

Foto e parole di Luigi Chighine

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Là fuori c’è la Mongolia

Mai come in Mongolia ho provato un senso di infinito, di vuoto, di deserto, di enormità contrapposto ad una civiltà antica e ad un popolo nomade e civile che abita gli spazi sconfinati.

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In Mongolia l’estate dura da giugno ad agosto, ci sono poi due brevi stagioni intermedie e 8 mesi di inverno durissimo con temperature che scendono a 50 gradi sotto zero, Ulaan Batar arriva a 50 gradi in estate raggiungendo un’escursione termica di 100 gradi tra le massime e le minime che mediamente si registrano ogni anno. Si aggiunga poi che su 2 milioni di persone in tutto in Mongolia il 30% della Popolazione vive da nomade nella steppa nelle caratteristiche Ger, le tende mongole: intere famiglie di allevatori che condividono i pochi metri quadrati della tenda sfidando i fortissimi e gelidi venti che arrivano da nord.

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Queste premesse socioclimatiche mi erano necessarie per chiarire il significato di queste mie fotografie. La cosa che più mi ha colpito viaggiando da queste parti è il senso di confine che c’è tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, tra le case (o le tende) e la natura selvaggia che è subito fuori di esse. Unico filtro fra interno ed esterno è la lastra di vetro di una finestra o una porticina di legno.

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Ho iniziato quindi ad osservare l’esterno visto dall’interno, a guardare quel mondo con gli occhi di chi lo vede tutti i giorni. Ho iniziato ad immedesimarmi nel punto di vista di chi vive contrasti tanto forti che rendono difficilissima qualsiasi forma di comunicazione e socializzazione.

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Nei pochi villaggi ci sono dei piccoli minimarket che vendono i generi di prima necessità senza lasciare alcuno spazio a tutto ciò che è superfluo, non indispensabile, non necessario. Le città più grandi hanno 2-3000 abitanti, un distributore di benzina, un paio di questi minimarket, un ristorantino per i pochi che passano da quelle parti, un Tempio buddista e qualche casa di muratura che si alterna alle ger.

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Dalle finestre di questi locali, così come dalle porte delle ger dei nomadi, si vedono mondi desolati, città vuote o l’immensità del Deserto di Gobi.

Ho voluto fare una analisi sociale di quello che è il mondo che queste persone hanno davanti. Da quelle finestre si vede sempre la stessa piazza, da quelle porticine sempre lo stesso orizzonte. La cosa che mi sconvolge è il fatto che siano pochissime le persone che vivono quegli spazi.

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Un nomade vedrà solo il deserto o la sua famiglia: una manciata di persone solitarie. Chi sta nel villaggio vedrà comunque sempre le stesse facce per tutta la vita. Da quelle parti è difficile trovare una propria identità, difficilissimo lasciare spazio alla creatività, alla socialità, allo scambio sociale e culturale tra le persone.

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Nessuna speranza di cambiamento per nessuno. La loro vita è segnata dal clima, dalla natura che non lascia spazio ai sogni.

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I Volti dell’India

Non è facile raccontare l’India. Un Paese così vasto, quasi un continente, dalle infinite sfumature, ricco di contraddizioni e di profonda spiritualità, un mosaico di volti che si intrecciano.

L’India.

Una terra antica, capace di confondere e incantare allo stesso tempo.

 

Molte persone, quando sono tornata, mi hanno chiesto “Ma perché proprio l’India? E’ sporca, povera, inquinata”. Perché è un altro mondo, e quando viaggio cerco sempre di andare in posti lontani, non solo geograficamente, ma anche culturalmente. Perché sono affascinata dalla diversità. Per le contraddizioni di quel paese, i colori, le persone e la loro spiritualità.

Non è semplice spiegare perché si rimane rapiti dall’India, e per questo ho cercato di raccontarlo attraverso la fotografia. Le mie foto riguardano il popolo. Sono proprio le persone che ho incontrato, a farmi “dimenticare” che mi trovavo in un luogo sporco e povero, dove la miseria è ovunque e in ogni momento. Persone che accolgono un viaggiatore sconosciuto e mai viso prima, come se lo conoscessero da sempre.

Il mio viaggio, difficile e meraviglioso, inizia da Delhi, dalle sue baraccopoli e dal suo

caos. E’ un posto indimenticabile che sconvolge qualsiasi viaggiatore e che dà la sensazione di essere catapultati in un altro mondo, soprattutto per la povertà in cui versa molta gente.

 

Persone povere ma ricche di una dignità e una fierezza senza pari.

Sguardi profondi, mai indifferenti, dentro volti segnati dalle difficoltà della vita.

Donne avvolte in bellissimi sari colorati, bimbi curiosi di conoscerti e di sapere

da dove vieni e che cosa fai. Il colore non manca mai, è nei muri, negli abiti, negli sguardi: un inno alla vita.

L’India. Un paese in cui religione diventa ragione di vita, dove la spiritualità trova spazio nella quotidianità e trova il culmine in città sacre come Varanasi. E’ la città più antica al mondo ancora popolata, dove tutto ha una fine, ma anche un nuovo inizio. Bagnata dal sacro Gange, che accoglie i fedeli per purificazioni e battesimi, è il luogo in cui gli induisti vanno a morire, per poi essere cremati sulle sue rive, così da poter rinascere.

di Silvia Pasqual

 

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Holi Festival dei Colori in India

Quando si pensa all’India, immediatamente si pensa al COLORE in tutte le sue forme: gli sgargianti Sari che le donne di ogni casta e ceto sociale indossano sempre con grande grazia ed eleganza, i TEMPLI induisti tempestati di migliaia di decorazioni e divinità colorate, le SPEZIE, che caratterizzano tutti i piatti tradizionali e che sono le protagoniste degli affollatissimi mercati con tutte le gradazioni del rosso e del giallo… insomma l’India senza colori non sarebbe l’India!!!

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©Simona Ottolenghi

Ma c’è un periodo dell’anno, che corrisponde all’inizio della primavera, in cui l’esplosione di colori assume la sua massima potenza: si tratta di HOLI, il festival dei colori più famoso del Mondo, durante il quale migliaia, se non milioni di persone, scendono in strada imbrattando con polveri colorate chiunque capiti a tiro.

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©Simona Ottolenghi

E’ una delle feste più antiche della mitologia Indù, e viene celebrata il giorno successivo alla prima notte di luna piena nel mese di Phalgun, che segna anche l’inizio della primavera.

Holi significa ‘bruciare’ e trae origine dalla leggenda di Holika: durante la sera della luna piena, si accendano infatti falò per allontanare gli spiriti e celebrare la Vittoria del Bene sul Male.

Il rito ricorda anche la miracolosa fuga del giovane Prahalad, devoto di Vishnu, dalla demone Holika che voleva darlo alle fiamme: Prahalad grazie alla sua fede in Vishnu scampò illeso mentre Holika morì arsa.

Il giorno successivo all’accensione dei falò la gente si ammassa per il lancio di acqua e polveri colorate per le vie delle città e nei villaggi.

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©Simona Ottolenghi

La Leggenda di Radha-Krishna ricorda proprio il lancio di colori: il giovane Khrisna, geloso dell’amata Rada per la bellezza della sua pelle, le dipinse tutta la faccia.

Così, i Templi durante Holi sono decorati con i colori e un idolo di Radha sull’altare.

Nel nostro Viaggio Fotografico abbiamo partecipato con grande entusiasmo, divertimento e qualche piacevole sorpresa ai festeggiamenti di questa fantastica festa dalle lontane origini religiose.

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©Simona Ottolenghi

Il nostro Holi è iniziato in un piccolissimo Tempio della bellissima Bundi, nel cuore del Rajastan dove siamo stati invitati a partecipare ad una loro cerimonia. Siamo stati accolti con grande calore  e subito coinvolti a stare in mezzo alla folla ed a ballare con loro. Non c’era differenza tra loro e noi, eravamo lì, ballavamo e scattavamo foto, quando improvvisamente, senza accorgercene, eravamo completamente colorati! Mancava ancora qualche giorno ad Holi, quindi non eravamo assolutamente preparati a ciò che ci avrebbe attesi. Avevano infatti iniziato a lanciare prima fiori e poi polveri di tutti i colori trasformando il Tempio in un fantastico e gioioso arcobaleno!

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©Simona Ottolenghi

Per fortuna siamo riusciti a salvare in qualche modo le fotocamere che non avevamo avuto modo di proteggere con le migliaia di buste che avevamo portato proprio per l’occasione.

Tra i partecipanti alla festa c’era anche un fotografo indiano che ci ha scattato qualche foto con la promessa di inviarcele via mail… certo non ci aspettavamo che quelle foto erano destinate ad una delle più famose testate del Rajastan!!!!

Dopo questo primo assaggio di Holi a Bundi, siamo andati a Jaipur dove abbiamo partecipato ai falò sulle strade della città e ci siamo immersi il giorno dopo nei veri festeggiamenti trasformandoci in divertite macchiette colorate! In giro per la città sui risciò ci fermavamo non appena individuavamo situazioni interessanti anche dal punto di vista fotografico… ma non facevamo a tempo a scendere che le nostre facce ed i nostri vestiti venivano ricoperti di ulteriori strati di colori fino a renderci assolutamente irriconoscibili!

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©Simona Ottolenghi

E’ stata una bellissima esperienza che ripeteremo sicuramente il prossimo anno e che spero possa essere di augurio per un anno pieno di gioia e colori per tutti!

Articolo giornale
Pubblicazione su giornale locale

Holi Festival 2015

Foto: © Simona Ottolenghi
Foto: © Simona Ottolenghi

 

Thailandia – con Karen Pozzi

Ciao a tutti. Mi chiamo Karen Pozzi e sono responsabile contenuti di leichic.it (www.leichic.it), magazine online di moda femminile e Karen P. by leichic (http://karenp.leichic.it), un blog nel quale racconto le mie passioni: moda, sport e viaggi. Oggi sono qui per raccontarvi il mio tour di quest’estate. Avevo 20 giorni a disposizione, qualche risparmio e tanta voglia di visitare l’oriente. Ho deciso di andare in Thailandia, Indonesia e Singapore.

E’ stato un viaggio faticoso, ma davvero molto emozionante grazie a quei posti paradisiaci che mi hanno fatto sognare. In questo articolo vi parlerò della Thailandia, poi, se avrete voglia di seguire il resto del mio tour dovrete attendere qualche giorno.

Sono atterrata a Bangkok il 27 luglio e il mio tour ha toccato questa splendidà città, l’isola di Phi Phi Island e Krabi. La Thailandia è un posto magnifico. La città di Bangkok è increbibile, nonostante il caos, l’inquinamento, lo sporco e molto altro di negativo, mi ha trasmesso moltissime sensazioni positive. Era la prima volta che andavo in oriente e il primo approccio con una città come questa che ingloba i sapori e dissapori di questa parte di mondo mi ha regalato tanto.

 

Tutto è iniziato da un giro nel centro, nell’affollatissima Kaho San Road, per poi proseguire sul fiume, al flotting market, sugli elefanti, al palazzo reale, al big Buddha e infine nel mega centro commerciale per un pò di shopping. Dopo tre giorni a Bangkok abbiamo preso un pullman per Krabi, dove avremmo preso la barca per Phi Phi Island. Un viaggio infinito, dodici ore su un pullman vecchissimo che per fortuna ci ha portati a destinazione.

Ci siaqmo imbarcati e ci siamo ritrovati in paradiso, in un’isola da sogno: niente macchine, moto e altri mezzi a motore, solo bici, stradine e tantissimi negozietti dove poter assaporare il buonissimo cibo locale a pochissimo prezzo. Siamo stati nella spiaggia di Loh Dalum, Long Beach e nelle isole vicine dove abbiamo potuto assistere ad uno spettacolo della natura: MAya Bay, la spiaggia dov’è stato girato il film The Beach di Leonardo Di Caprio.

 

Il nostro viaggio è proseguito in Indonesia, ve ne parlerò nel prossimo articolo.

 

Calcutta – l’India più vera

CalcuttaColor cerbiatto, zuccherino, un liquido denso, carico di latte. Lo passano attraverso un tessuto bianco, di dubbia pulizia, per arrivare alla consistenza giusta, mentre un capannello di gente guarda attenta. Dicono che i rickshaw pullers, gli “uomini cavallo”, lo bevano per resistere alla fame, per farsi forza in mancanza di cibo. Ora i turisti ne fanno un rito di passaggio, un modo per sentirsi integrati in questa terra distante, un sapore zuccherino in un’amara, irrisolvibile povertà.

Li si trova ovunque, i venditori di thé: a ogni angolo delle strade, accovacciati, apparentemente insensibili al dolore di tante ore rannicchiati sulle ginocchia. In un lillipuziano vasetto di terracotta, versano il liquido bollente, aspettando che si getti via il bicchiere appena finito, aggiungendolo al mucchio di immondizia per le strade. Nella mia camera fa ancora capolino, quel piccolo contenitore, scambiato da tutti per un oggetto bioetico, uscito illeso dalle immancabili liti in aeroporto, tra i chili in più nel bagaglio verso casa.

E’ già passata una settimana, mi sto abituando al traffico che non conosce riposo: allo zoo a due, tre, quattro ruote e due gambe che popola le strade. “Tuc tuc”, moto, macchine, bici, tram e autobus: città della gioia o inferno di dolore?

Fa freddo, alle cinque e mezzo del mattino di questo lunedì.

Con altre quattro ragazze, anche loro volontarie con le suore di Madre Teresa, cammino ogni mattina dalla mia guesthouse alla chiesa, in tempo per la messa delle sei. Sono arrivata da quasi un mese, e già sento che sarà dura andar via. Ho cominciato il servizio con le suore di Madre Teresa, A Pren Dam, casa di accoglienza per malati e moribondi, oasi di pace tra le pieghe di AJC Bose Road, dove intere famiglie vivono per strada, quasi invisibili nella loro povertà.

Calcutta è una città che scuote, che distrugge, mettendoti al muro, in un odi et amo gridato dai cumuli di immondizia agli angoli delle strade. Non ci sono fogne, né bagni, né strade asfaltate: in giro mucche, cani, galline, uomini cavallo e bambini. E’ una città di impressioni: alcune forti, urlate, impresse sopra il rumore del traffico che non conosce riposo; altre silenziose, delicate, difficili da ascoltare e da comprendere. Ci sono voci nascoste dai clacson delle moto e delle macchine, canti mariani e richiami di muezzin, segnali di panico e richieste di aiuto, sottolineate dalle grida di chi da questa città vorrebbe fuggire, perché quello che vede è davvero troppo. Ma ci sono anche le parole che vincono il frastuono e penetrano nel nostro silenzio interiore, facendo breccia, imprimendosi nella a memoria.

Me l’hanno chiesto in tanti cosa mi ha lasciato questo viaggio.

Dei tanti giorni di volontariato in una città estrema che ho imparato ad amare mi resterà nel cuore una frase: “God still loves the world through me and you today”. 

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Calcutta

Ladakh

Attraversando il Ladakh

C’è una terra straordinaria in Oriente  capace di  imprigionare  il cuore di chi l’attraversa. La paragonerei ad una stella caduta sulla terra, un angolo di paradiso dimenticato.  L’altopiano del Ladakh, chiamato anche il piccolo Tibet. I pendii rocciosi delle valli sono un libro aperto di geologia che affascina chiunque per la varietà dei colori, con l’alternarsi degli strati e delle cenge, con i grandi mammelloni sabbiosi.

Il paese degli alti valichi, nomi che provano a evocare, senza riuscirci completamente, la meravigliosa sensazione di trovarsi in una terra unica al mondo. Oasi polverose circondate che si alternano ai monasteri lamaisti, fortezze in miniatura dove il tempo sembra fermo a un’epoca lontana, un luogo remoto e dalla natura sproporzionata dove tutto ha una sua spiegazione poetica o mistica, frutto della serenità e della fede di uno dei popoli più intimamente religiosi del pianeta.

Entrando silenziosamente  nei monasteri della valle dell’Indo, camminando nelle immense distese aride e selvagge circondate dalle vette innevate, sono riuscita a  scivolare nella pace di un mondo antico, fatto di persone dai gesti semplici e di una spiritualità così profonda da lasciare tracce indelebili nella propria memoria.

Non puoi percorrere la Via prima di essere diventato la Via stessa.

Gautama Buddh

…… E Tutto scorre

All’inizio e alla fine del mondo tutto era acqua e tutto diverrà acqua

E’ l’antico testo del Kata Sarit Sagar a rammentarci che fra questi due estremi il mondo si evolve e si dissolve in una serie interminabile di cicli attraverso milioni di anni. L’uomo partecipa a questo dilemma, appare e scompare di volta in volta nel corso delle ere.

Il pensiero indiano provvede ad offrire una via di salvezza in questo trauma, attraverso il distacco del proprio io dalla ruota senza fine dell’esistenza. Questo distacco può essere operato quando si raggiunge l’asceteismo e la meditazione, annullando il desiderio di possesso, così che ognuno possa guardare aldilà dell’esperienza umana ed apparente.

Ladakh

Altre vie sono offerte al Karma, raggiungimento degli obiettivi positivi, dalla Bakti, amore e adorazione per dio, dal dharma, senso della giusta azione. Questi percorsi spirituali permettono di raggiungere la moskha (liberazione) che conduce il se aldilà del tempo dove il legame con la causa è profondo ed entriamo in uno stato di sonno senza sogni, conosciuto come turiya.

Ladakh

L’uomo ideale (uttam purusha ) è chi ricerca questa visione e gioisce per il benessere di tutte le creature

Chhandogya Upanishadd 8.12

Iran

Iran: il Paese a forma di gatto

“Il vostro Paese ha la forma di uno stivale, il nostro quella di un gatto!”, così dicono in Iran a noi italiani.

Questo approccio è stato senza dubbio il più curioso tra quelli mesi in atto da chi per tutta la durata del nostro viaggio ci ha avvicinato desideroso di praticare il proprio inglese e di sapere da dove venivamo.

Di questo paese a forma di gatto, con le orecchie a segnare il confine con Turchia ed Azerbaijan, il dorso a segnare i confini con il Turkmenistan e l’Afghanistan, e la coda quello con il Pakistan, ci ha colpito la curiosità (neanche a farlo apposta caratteristica tipicamente felina) dei suoi abitanti, così interessati a sapere che cosa si pensa in occidente dell’Iran e soprattutto di loro, che mai avremmo immaginato essere così ospitali, cordiali, amichevoli e soprattutto così lontani dall’immagine che le informazioni che ci arrivano ci inducono a prefigurare.
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Cordialità e ospitalità

E proprio perché inaspettata, la cordialità ed ospitalità dei suoi abitanti è stato l’elemento senza dubbio  più caratterizzante del viaggio di tre settimane che mia moglie ed io abbiamo effettuato nella Repubblica Islamica dell’Iran. Eppure un viaggio in Iran offre molteplici spunti di interesse: la storia,  l’archeologia, l’architettura, i paesaggi, l’aspetto etnico.

La storia dell’Iran è la storia del mondo. Qui si sono succeduti i maggiori imperi della storia: Medi, Persiani, Greci, Arabi. Persino i Mongoli di Gengis Khan hanno occupato a più riprese il territorio dell’odierno Iran contaminandolo con le proprie culture, tradizioni, religioni.

L’impero persiano è stato tra i più grandi della storia, arrivando ad includere nella sua massima estensione il territorio compreso tra la valle del fiume Indo (nell’odierno Pakistan) e le coste del nord africa e del Mar Rosso.

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Le conoscenze sviluppate da questo popolo spaziano in tutti i campi dello scibile umano. Costruirono nel V secolo a.C. la prima strada, un’arteria che collegava il centro dell’Asia con il Mediterraneo per uno sviluppo di circa 2700 chilometri. Implementarono poi un sistema di collegamenti “postali” che consentiva, utilizzando proprio questa strada, di trasmettere informazioni da una parte all’altra dell’impero in una settimana.

Al tempo una carovana mercantile impiegava, su quello stesso percorso, almeno 90 giorni. Questi determinarono con estrema precisione la durata dell’anno solare in un’epoca in cui in Europa si pensava ancora che la terra fosse piatta.

Tra le discipline scientifiche cui gli eruditi persiani dettero un sensibile apporto vi sono la logica, la teoria musicale, l’idrologia, la botanica, la zoologia, la gemmologia, la mineralogia.

Ma è l’architettura l’ambito in cui la Persia ha offerto i maggiori contributi alla cultura mondiale. Ciò è visibile soprattutto con le coperture a cupola delle moschee, le cui stupende decorazioni in ceramica che le arricchiscono sono tra i ricordi più vivi del viaggio.

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Logistica in viaggio:

Già il viaggio: noi avevamo a disposizione tre settimane, tra giugno e luglio, e abbiamo pensato ad un itinerario che ci permettesse una prima conoscenza generale del Paese, traendo ispirazione sia da itinerari percorsi da altri amici che dalle descrizioni delle guide turistiche.

Contattata via e-mail un’agenzia locale, abbiamo iniziato una fitta corrispondenza che ci ha portato a definire compiutamente l’itinerario alcune settimane prima della partenza.

L’agenzia ha inoltre provveduto ad inoltrare al Ministero degli Affari Esteri iraniano la documentazione necessaria per il rilascio, tramite il consolato in Italia, del visto di ingresso. Il nostro viaggio inizia da Teheran, dove rimaniamo un paio di giorni. Giusto il tempo di vedere il bazar, alcuni musei ed imparare ad usare la valuta locale.

Beh, a dire il vero abbiamo avuto incertezze sui prezzi fino alla fine del viaggio, ma del resto come potrebbe essere altrimenti? Hanno una moneta che si chiama Rial, però i prezzi li indicano in Toman (la decima parte del Rial) … insomma, le figuracce al momento di pagare qualcosa sono pressochè inevitabili.

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Nella capitale, ma la sensazione ci accompagnerà in tutte le principali città visitate, prendiamo subito atto di quale sia il vero, grande pericolo per chi viaggia in Iran: il traffico!

Non esistono regole: i semafori sono considerati poco più di un suggerimento, in autostrada sono ammesse le inversioni ad U, la precedenza agli incroci è di chi arriva prima o del più grande. Nonostante questa sorta di caos organizzato incredibilmente non abbiamo mai visto incidenti.

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Il viaggio:

Lasciata Teheran abbiamo iniziato il tour verso il nord del Paese, che ci ha portato a Tabriz dopo aver toccato le città di Qazvim, Anzali Abbas, Astara, Ardabil ed i villaggi di Mausoleh e Kandovan.

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Da Tabriz in volo abbiamo raggiunto la città di Shiraz, nel sud ovest dell’Iran, dove si dice sia stato “inventato” il vino settemila anni fa. E’ considerata la culla della poesia persiana, avendo dato i natali a due dei massimi poeti iraniani: Saadi e Hafez. In Iran la poesia è amatissima.

Le tombe dei poeti sono spesso inserite in giardini o piccoli parchi, frequentatissimi soprattutto al tramonto dalla gente e da molti giovani, che amano leggere i versi dei grandi maestri.

Si dice che tutti gli iraniani abbiano almeno due libri nelle proprie case: il Corano e le liriche di Hafez, e non sempre in quest’ordine di importanza …

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Shiraz può costituire un’ottima base per escursioni giornaliere nei dintorni. Da segnalare in particolare verso Persepolis e la vicina necropoli con le tombe scavate sulla roccia di Dario, Serse ed Artaserse.

Le rovine di Persepolis, il luogo più visitato dell’intero Iran, danno immediatamente l’idea di quale possa essere stata la grandezza di uno dei più potenti imperi del mondo antico.

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Da Shiraz ci siamo spinti ulteriormente verso est fino alla città di Kerman. Questa appare come un’oasi nella vasta area che costituisce l’appendice meridionale del  deserto Dasht-e Luth, che occupa la gran parte dell’est Iran. La città è una delle più antiche dell’Iran. La sua vicinanza con le principali direttrici del commercio con l’estremo oriente ne ha fatto un crogiuolo di etnie e culture diverse.

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Da Kerman abbiamo raggiunto, con un’escursione giornaliera, il punto più meridionale del nostro itinerario: la cittadella di Bam. Bam è stata completamente distrutta dal violento terremoto del 2003 ma ora in avanzata fase di ricostruzione.

Prima del cataclisma rappresentava il massimo esempio mondiale di cittadella interamente realizzata in mattoni crudi.

Ora questo primato è detenuto dalla cittadella di Rayen, ad un centinaio di chilometri da Kerman e da qui facilmente raggiungibile.

Nel corso della stessa escursione che ci ha portati a visitare Bam e Reyan. Abbiamo poi visitato anche gli splendidi giardini di Mahan, caratterizzati da una serie di fontane e ruscelletti circondati da alberi e fiori, una vera e propria oasi immersa nell’arido paesaggio desertico del sud est dell’Iran.

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Da Kerman è iniziato quindi il percorso di ritorno verso Teheran, con tappe nelle città di Yazd, Isfahan e Kashan. Isfahan per noi è la città che più di ogni altra evoca il fascino dell’antica Persia e sintetizza l’Iran attuale.

La sua piazza principale, Imam Square, attrae come una calamita i visitatori che durante le passeggiate alla scoperta della città vi ritornano continuamente.

Questa splendida piazza è seconda per dimensioni solo alla piazza Tien An Men, ed è racchiusa da lunghe mura in mattoni ad arcate sovrapposte, con il piano inferiore occupato da negozi.

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Le voci della piazza

Al tramonto la piazza si anima di moltissime persone. Alcune si portano da casa il cibo che consumano seduti sulle panchine o sul prato che circonda la grande fontana centrale. I ricordi e le emozioni maggiori del viaggio li dobbiamo proprio a questo posto.

Seduti ad osservare questo spettacolo di varia umanità, ci siamo lasciati avvicinare dai più curiosi ed intraprendenti di loro ed abbiamo conversato a lungo dei più disparati argomenti.

La pallavolo (“avete visto alla televisione l’Iran battere l’Italia?”), il lavoro (“che lavoro fate? Quanto si guadagna in Italia? Che cosa fanno gli italiani quando vanno in pensione?”), la famiglia (“quanti figli avete? Non avete figli?!?, Perché?”).

E poi… la politica (“non dovete pensare che il popolo iraniano sia come il governo iraniano …”), la condizione femminile (“il vero problema non è dover indossare il velo, è che alle donne sono proibite molte professioni e che in caso di divorzio i figli vengono affidati sempre al padre …”).

Sarà forse perché questa esperienza l’abbiamo vissuta ormai alla fine del viaggio, ma quando ripensiamo all’Iran (e ci capita molte volte di farlo) il ricordo va subito ad Isfahan ed alle ore trascorse nella sua magica piazza.

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Iran e fotografia:

Dal punto di vista fotografico, l’Iran è tra i luoghi più fotogenici che ho visitato. Ci sono bellissimi paesaggi, soprattutto al limite dell’area desertica. Non oso pensare quanto meravigliosi possano essere certi paesaggi montani in primavera o in autunno, con la vegetazione al suo massimo splendore.

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Ci sono architetture tra le più belle e raffinate che mi sia mai capitato di vedere. Le persone poi, se glielo si chiede, sono per lo più disponibili a farsi fotografare, e per la prima volta ci è capitato che qualcuno ci chieda di potersi fotografare in nostra compagnia.

In virtù di questa disponibilità da parte delle persone, mi sono ritrovato ad usare prevalentemente obiettivi zoom grandangolari. Questi sono essenziali anche per enfatizzare gli imponenti elementi architettonici  delle moschee e degli altri palazzi (portali, archi, colonnati, cupole).

 

Qualche problema tecnico di esposizione corretta lo si ha per la forte luce ed il riverbero (dovuto alla presenza di pulviscolo in sospensione nell’aria) presenti soprattutto nelle zone del centro e del sud vicine al grande deserto orientale. Per questo motivo può capitare di ricorrere ad esposizioni manuali per compensare l’escursione di oltre tre diaframmi tra zone illuminate e zone in ombra.

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E’ un viaggio che mi sento di raccomandare caldamente, non vi deluderà. Ritengo che il periodo migliore sia la primavera o l’autunno, ma il caldo estivo è comunque facilmente sopportabile dato il bassissimo tenore di umidità dell’aria.

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E allora, BUON VIAGGIO!
Riccardo Panozzo
333 5743082
rikipan@alice.it

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PS e saluti

A chi fosse eventualmente interessato ad organizzarsi autonomamente il viaggio, posso fornire i riferimenti della guida che ci ha accompagnato nella seconda parte del viaggio. E’ un ottimo autista oltre che guida molto competente, può supportarvi nell’organizzazione del viaggio anche se doveste essere un piccolo gruppo.

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Una lettera da Makassar

Una lettera da Makassar, nell’isola di Sulawesi.

L’oggetto più antico esistente nella nostra casa, un vero cimelio storico, era un bauletto appartenuto al mio trisavolo materno. Per tutti noi era semplicemente il forziere, un nome che testimoniava l’alta considerazione in cui era tenuto per via della vita lunga e avventurosa dell’avo, della quale ciascuno di noi era a conoscenza, almeno a grandi linee, perché nel racconto di quella umana vicenda si era esaltata la fantasia di ogni giovane generazione della nostra famiglia. Non escludo che il racconto orale, nel lungo tempo trascorso, possa essersi arricchito di molti particolari o di episodi che abbiano aumentato l’attrattiva e lo smalto favoloso di quel vissuto. Dico questo soprattutto in considerazione di quanto fatto proprio da me con l’accrescere,ogni volta che ne raccontavo, l’aspetto avventuroso di quella vita, e con la colmatura delle lacune e degli strappi nella successione cronologica,ma suppongo che molti altri abbiano dato un contributo a trasformare i vari episodi in un vero romanzo di avventure. Durante l’adolescenza sono stato un affamato lettore di libri di quel genere ma non saprei dire se a ciò fossi indotto dal ricordo dell’avo o se viceversa fosse stata la mia passione per i libri di avventura a farmi mitizzare la sua figura. Conoscevo a fondo, per averli letti e riletti, romanzi come L’isola del tesoro, come Le avventure di Arthur Gordon Pym o Robinson Crusoe, come I pirati della Malesia o Billy Budd, gabbiere di parrocchetto.

Mi piaceva soprattutto la marineria ed ero giunto al punto da studiarne propriamente ogni aspetto, come la nomenclatura completa di ogni tipo e classe di bastimento e delle varie parti che compongono una nave e i vari pezzi di costruzione, l’alberatura, l’attrezzatura – cavi, paranchi, bozzelli, ancore, vele… – e le manovre, e i nodi, le legature…, come pure i nomi degli uomini che nelle varie funzioni attendono al governo di un natante. La mia passione si alimentava specialmente con le storie ambientate nei mari del Sud, il cielo australe mi affascinava per l’aura di mistero che io vi annettevo. E certamente pensavo che le avventure possibili in quell’emisfero fossero di tutt’altra natura, non dico superiore ma affatto diversa,che quelle nei mari del Nord. Insomma in quelle della Croce del Sud, in quei caldi arcipelaghi, nel Mar della Cina, nei mari della Malesia e del Borneo era tutto un andirivieni di giunche di pirati e di traffici di dubbia legalità;nelle altre,quelle dei mari del Nord, c’era il lento procedere delle navi rompighiaccio, l’attiva vita dei pescatori di aringhe e di merluzzi ai Grandi Banchi di Terranova, l’epica caccia alla balena nei freddi mari della Corrente del Labrador: due mondi così distanti…

Tornando al mio avo, vi è da sapere che il racconto della sua vita non è stato intessuto soltanto oralmente dai suoi discendenti ma ha avuto inizio da un prezioso brogliaccio contenuto nel suo forziere giunto fino a noi. In quel bauletto, un pezzo veramente ben costruito, in legno di pero rinforzato e borchiato e ancora pressoché intatto, erano contenuti oggetti preziosi e in primo luogo un brogliaccio rilegato solidamente,con il taglio delle pagine tinto di rosso come una bibbia o un breviario da ecclesiastico:e questo sì, è il pezzo che maggiormente ci interessa ma non posso tacere del fascino che su di me esercitavano le altre reliquie (un piccolo cannocchiale di lucente ottone, due paia di guanti, un orologio da tasca, un paio di occhialoni con la mascherina, un kris malese, un cannello di penna di giada, una medaglia della British East India Company, vari libriccini di appunti delle dimensioni di un enchiridio, un calendario perpetuo e altri piccoli oggetti) la principale delle quali era un copialettere portatile ancora perfettamente funzionante. Proprio con quello strumento il mio avo aveva diligentemente ricopiato nel grande brogliaccio ogni atto scritto e ogni lettera – atti e lettere redatti in italiano, in francese e in inglese – da lui prodotti nel corso della sua lunga vita, essendo morto nonagenario, proco prima della grande guerra, nel suo buen retiro sorrentino.

Nel brogliaccio del mio trisavolo erano annotati, quali brevemente e quali più estesamente, molti fatti e circostanze della sua vita, non esclusi certi rilievi psicologici personali e certe meditazioni, tutte scritture che fanno di quel libro un vero e proprio diario. Ho detto già degli spunti di riflessione ma non sottovaluto le altre minuzie e gli appunti frammentari rilevati dagli enchiridi: tutte notizie che compongono il vivido mosaico della sua esistenza. Si va dai fugaci amori, per la verità non infrequenti anche dopo il suo matrimonio, alla nascita dei figli, dagli acquisti di oggetti importanti all’annotazione dei bagni completi fatti per l’igiene personale e finanche talvolta alle osservazioni meteorologiche  e climatiche.

Durante la mia adolescenza, nelle lunghe giornate delle vacanze estive, ho trascorso molto tempo a compulsare quel diario ed a farne un duplicato in un librone molto somigliante all’originale, riportando però tutti gli scritti in lingua italiana, avendo io stesso tradotto tutti i testi. Tra le lettere più importanti ve n’è una che contiene alcune informazioni generali sull’autore, di cui non ho ancora detto il nome perché lo dirà lui stesso nella lettera. Questo scritto è una sorta di curriculum da lui inviato all’antropologo dell’Inghilterra vittoriana Edward Burnett Tylor, l’autore del famoso libro Primitive Culture. Ho definito avventurosa la vita del mio trisavolo senza dire perché lo fosse: dalla lettera si capisce e per questo la trascriverò qui di seguito, ma intanto basti considerare il luogo di partenza di quella lettera, Makassar – una città che ai giorni nostri è la capitale della provincia indonesiana del Sulawesi Meridionale, che è una grande isola – e che già allora, alla metà del secolo diciannovesimo era un importante porto libero dell’isola di Celebes, nome con cui a quel tempo era conosciuta in tutto l’Occidente.

Dopo queste poche premesse è ormai il momento di riportare l’intero testo della lettera nella versione da me tradotta.



Mittente: P. A. Giaccarino
Care of  Missione Commerciale Genovese
MAKASSAR

Al Signor Professor
Edward Burnett Tylor
care of Reale Società di Biologia
LONDON
“Makassar, a dì 13 aprile 1848

“Illustre Signore,

mi presento a Lei a nome del Primo Nostromo della goletta Plymouth II, il Signor Bud Fitzpatrick: sono Pietro Agnello Giaccarino, un suddito di S.M. il Re delle Due Sicilie. Sono nato a Sorrento nell’anno 1823 e mi sono stabilito nell’isola di Celebes da circa quattro anni, dopo aver fatto la spola per tre anni, negli arcipelaghi delle Molucche e della Sonda, su un navilio di lungo corso, un brigantino mercantile a tre alberi. Conosco il mare dall’infanzia e navigo fin dalla giovine età dei sedici anni.

“Il mio officio consiste nell’approvvigionare di legnami pregiati, tek, ebano, sandalo e canfora, nonché di scorza di china una ditta genovese, di cui sono commissionario, la quale ne fa commercio in Italia e in Europa; legnami che in queste terre sono largamente diffusi.

Il Nostromo Fitzpatrick avrebbe in me ravvisato le qualità adatte a  corrispondere con Lei, illustre Professore, con riferimento alla materia delle usanze e tradizioni tribali nonché dei riti di queste popolazioni, per il fine di fornire a Lei mezzi di studio e di comparazione, se ho ben compreso, per un Suo lavoro intorno alla cultura delle genti primitive.

“Quantunque il mio umano sostentamento mi provenga dall’attività del tutto diversa di cui Le ho riferito e nonostante il forse troppo breve periodo di stanziamento in Makassar, mi professo adatto alla bisogna,g iacché il tipo di osservazioni che essa mi richiederebbe è consono al mio personale interesse. Le dico, a tal proposito, che io fui educato in Amalfi da un sant’uomo,un ecclesiastico barnabita, di nome Padre Bracciolino Calise, già stato missionario per lunghissimi anni in terre d’Affrica eppertanto  profondamente versato nella scienza etnografica, di cui m’insegnò i rudimenti, quegli stessi che mi hanno accompagnato in Celebes e che m’hanno dato contezza di tanto argomento che altrimenti mi sarebbe restato estraneo.

“Vorrei dunque darle un breve saggio delle informazioni che potrei trasferirle se Lei acconsentisse alla mia collaborazione, che sin d’ora Le assicuro gratuita. Per il momento mi applicherò a riferire le osservazioni già da me fatte, specialmente quelle intorno ai Toradja o Taraja, il popolo dell’altopiano. In seguito Le fornirò notizie più diffuse e più dettagliate,conforme al desiderio mio di servir al meglio Lei e la scienza.

“Inizio dai riti connessi con la lunga siccità o con l’eccesso di pioggia e dunque dalle azioni volte a provocarla,nel primo caso, ed a farla cessare, nel secondo. Nelle zone a nord di Celebes nominate Minahassa, gli sciamani prendono lunghi bagni cerimoniali con l’intenzione di provocare il cielo alla pioggia. Nella zona centrale dell’isola, allorché per l’assenza prolungata dell’acqua le piantine di riso principiano a rinseccolirsi e prima che il raccolto vada perso del tutto, gli abitatori dei villaggi si portano ai fiumiciattoli,alle pozze d’acqua e se ne aspergono con grandi strilli, specialmente quelli dei giovani, e se ne spruzzano e schizzano. E imitano il rumore della pioggia battendo le mani sulla superficie liquida o tamburellano,con la stessa intenzione, su una zucca svuotata. Sotto questi cieli è altresì necessario, talvolta, scongiurare la pioggia, farla cessare quando è troppa e questa, si sa, è una necessità anche dei contadini delle nostre parti. Ed anzi posso aggiungere che tante pratiche consimili avvengano anche nelle terre dove nacqui. Per restare a Celebes, l’eccesso d’acqua può diventare disastroso, e questo accade quando i venti Alisei si sono sovraccaricati all’eccesso di umidità durante il loro percorso sugli oceani. Può allora piovere sull’isola per mesi e mesi e mandar tutto marcio. Prima che questo avvenga, il sacerdote o mago della pioggia inizia quello che è un combattimento serrato con l’acqua, cioè si astiene totalmente dal toccarla, non si lava mai,beve soltanto il vino di palma; se deve attraversare un ruscello cerca un punto in cui gli sia possibile farlo senza toccare l’acqua, appoggia i piedi sui massi petrosi che emergono. Durante questo tempo propiziatorio egli vive in una capannuccia appartata dal villaggio ed eretta nel campo di riso. Qui accende un focherello che deve essere continuamente alimentato e vi brucia legnetti che dovrebbero avere il potere di tenere lontana la pioggia. Se all’orizzonte si profilano banchi di nubi carichi di pioggia, il mago soffia in quella stessa direzione reggendo tra le mani foglie e scorze d’albero che, per gli stessi nomi che portano suggeriscono la leggerezza e dunque si presume abbiano il potere di allontanare le nubi rendendole leggere sotto il soffio dello sciamano. In questo caso come in tante altre occasioni, questi uomini fanno un teatrino basato sulla somiglianza, sull’imitazione, credendo così di indurre gli spiriti che sono nelle cose ad imitarli. Questo mi ha insegnato il mio maestro Padre Bracciolino Calise e questo ho sempre potuto osservare:ma queste sono cose che lei sa meglio di me,modi di cui Lei conosce il nome ed io no. Ad ogni modo posso dirle che questa imitazione, questa specie di recita teatrale tanto ingenua è largamente praticata da tutti,anche da chi sciamano non è e per una serie infinita di intenzioni. Per esempio, chi volesse catturare un cinghiale, un maiale selvatico o altro animale, dovrà esporre all’esterno della casa o capanna una parte dell’animale che vuole attirare:una zampa,un corno,un lembo di pelle scuoiata… Lo stesso fanno, s’intende in altri modi ma con la stessa idea di teatro e di somiglianza, per mantenere in vita una persona,per scacciare gli spiriti del male. Queste però sono cerimonie cruente e qualche volta crudeli,almeno per noi. I riti che vogliono espellere il male sono eseguiti con il sacrificio di animali,con scannamenti che a noi potrebbero sembrare raccapriccianti se non sapessimo che un tempo,e forse ancora oggi presso i gruppi tribali più selvaggi,i sacrifizi erano fatti con l’uccisione di persone.

“Modi estremamente cruenti accompagnano anche il più complesso rito della sepoltura,un evento che può occupare giorni e giorni, durante i quali il villaggio attraversa momenti di baraonda alternati allo svolgersi della comune vita, al commercio ed alle altre umane cure. Quello che conta è l’importanza che si dà al corpo del defunto che,con un lungo cerimoniale accompagnato da canti e suoni di cimbali e tamburi, viene posto,dopo essere stato portato in processione, su un grande catafalco tutto ornato. D’intorno c’è gente che mangia (e questo, se mi è permesso dire, mi rammenta quel che avviene presso di noi, nelle nostre terre, dove si usa preparare il cuonsolo, cioè la consolazione, che è un lauto pasto da offrirsi a cura dei vicini alla famiglia del defunto), gente che attende ai propri affari approfittando dell’occasione di quel grande concentramento di gente. In queste cerimonie, quello che maggiormente mi ha impressionato è il sacrificio del bufalo, anzi di uno o più bufali, che viene fatto davanti a tutti, sulla radura dove si svolge il rito funebre. Quegli animali mastodontici vengono legati per le zampe ad un palo conficcato saldamente nel terreno, tanto profondamente per poter reggere, senza svellersi, alla forza immane dell’animale. Quando è il momento, il sacerdote si avvicina cautamente al bestione, che forse per via delle legature subite è già infuriato e come presago del suo destino di morte, e servendosi di un lungo e affilatissimo pugnale lo trafigge alla gola. L’impressionante fiotto di sangue che ne spiccia fuori inonda il terreno circostante, cioè tutto il cerchio intorno al palo a cui è vincolato e nel quale l’animale impazzito riesce ancora a muoversi scalciando in maniera furibonda. Durante questa penosa agonia la bestia riceve altre trafitture con le stesse modalità finché, totalmente dissanguato, crolla al suolo privo di vita se non per qualche fremito o spasmo residuo del suo corpo. Considerato che questo sacrifizio può ripetersi con altri animali durante la stessa cerimonia, alla fine il terreno è intriso totalmente di sangue.

Egregio Signor Professore, queste poche considerazioni valgano soltanto a illustrare la possibilità di giovarsi dei miei rapporti, che saranno tanto più accurati se Ella vorrà indicarmi uno schema da seguire, una traccia a cui attenermi. In attesa di un Suo scritto di risposta, Le mando i miei migliori saluti da Makassar. Sono il Suo servitore e mi firmo Pietro Agnello Giaccarino.”

Renato Gabriele

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