Viaggio in laguna

Viaggio in laguna

laguna

Sono rimasti in pochi i pescatori di “moeche” (granchi) e tutti concentrati nella laguna di Venezia. Il loro è un lavoro duro e impegnativo che si tramanda di padre in figlio.

pescatori

Ci si sveglia molto presto, prima dell’alba, si inizia poi a navigare freneticamente in laguna per spostare i pali delle le reti o per tirarle su e controllare il bottino…granchi, crostacei e pesci grossi vengono tenuti, il resto torna in mare.

laguna

Durante un viaggio a Venezia, ho avuto modo di vedere all’opera questi pescatori.
Sono rimasto colpito dal contrasto tra questa frenesia nei loro spostamenti e la calma placida che trasmette il paesaggio circostante.

laguna

 

Questo contrasto è ancor più percepibile nei momenti di pausa lavorativa dei pescatori e che ho voluto rappresentare negli scatti che presento.

venezia

Foto e parole di Roberto Moreschi

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Gianni Berengo Gardin a Roma

Vera fotografia

Roma: Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale 194, fino al 28 agosto  2016 c’è la mostra fotografica di Gianni Berengo Gardin. A cura di Contrasto e Fondazione FORMA per la Fotografia.

Vera Fotografia, è il timbro verde che l’Autore, così come moltissimi della sua generazione (classe 1930) erano soliti porre sul retro delle stampe da negativo per distinguerle da quelle stampate tipograficamente che erano di minor pregio e per certificarne l’autenticità di immagine ottenuta senza manipolazioni di camera oscura, nè, tantomeno con postproduzione digitale. In realtà, come sappiamo, ogni foto nel momento stesso in cui viene sviluppata (con metodi chimici o digitali) è già stata in qualche modo alterata, resa atta alla stampa e i suoi toni sono già stati modificati. Senza dubbio anche il passaggio da una realtà a colori ad una immagine in bianco e nero è già una prima alterazione (e non trascurabile nè reversibile) della realtà stessa.

Berengo Gardin Catalogo
Catalogo della Mostra di Roma

Ho visitato la mostra con un gruppo di Allievi di Viaggio Fotografico e la prima impressione che ne ho avuto è stata quella di trovarmi non solo davanti ad un Grande Maestro, ma davanti ad uno che era tale per aver scritto, ancora VIVENTE, una delle più belle pagine della Storia della Fotografia. E la differenza tra essere un bravo Fotografo e scrivere la storia è enorme. Di bravissimi Fotografi, professionisti o meno ce ne sono tanti al mondo, ma solo pochissimi sanno innovare il linguaggio fotografico ed espressivo, dettare le nuove regole alle quali poi moltissimi si ispireranno. E, ovviamente, Berengo Gardin è senz’altro uno di loro e il motivo lo capiamo proprio vedendo la sua mostra.

La prima impressione che ho avuto entrando nella mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma è quella di uno spazio ben ordinato, con sale tematiche e divise in ordine cronologico. Questo dettaglio che sembra normale, addirittura scontato, è invece quello che dimostra quanto sia longeva l’attività artistica e giornalistica di Gianni Berengo Gardin,un fotografo ancora vivente che ha esposto in centinaia di mostre in tutto il mondo e scritto oltre 250 libri fotografici. Un portento. Una vera forza della natura che produce Fotografie ininterrottamente da oltre 60 anni. E il senso della storia si sente fortissimo in questa mostra. Mi sia concesso un paragone, ma io credo che Berengo Gardin abbia raccontato un pezzo di Storia Italiana oltre che di Storia della Fotografia così come negli stessi anni fece nel cinema Alberto Sordi, raccontando gli Italiani e il loro costume che cambia. Berengo Gardin racconta una Italia senza tempo che sembra appartenerci ancora. Le sue immagini, raccontano così bene la nostra Italia che ci riconosciamo in esse, nei luoghi e nelle persone, come se facessero parte del nostro quotidiano.

gli Zingari uno dei temi a lui più cari
gli Zingari uno dei temi a lui più cari

Un innovatore: oggi tanto si parla di Street Photography. Probabilmente uno dei primi iniziatori della Fotografia di Strada fu proprio Gianni Berengo Gardin che ha sempre fatto della spontaneità del momento il suo cavallo di battaglia. Della semplicità di linee e forme la sua arma vincente, della innocenza delle persone ritratte il suo obiettivo finale.

Il Bianco e nero mai rinnegato per un modernistico o stilistico passaggio alla fotografia a colori uniforma i toni di tutta la mostra che sembra realizzata con immagini scattate in pochi mesi. In realtà di tempo tra le immagini ne è passato tanto, ciò che invece è rimasto uguale è lo stile che non è mai cambiato, ha sempre mantenuto una pulizia formale e un grande silenzio. Le foto di Berengo Gardin non hanno parole, non hanno rumori, le trovo ovattate, icone fortemente espressive ma che non esprimono rumori. Un pò come si esprime un mimo sul suo palco, così Berengo Gardin riesce a farci sentire la musica senza ascoltarla e anche le sue foto di fabbriche vengono percepite come spazi silenziosi.

Scanno (AQ): la gente guarda se stessa fuori casa
Scanno (AQ): la gente guarda se stessa fuori casa

Immagini che raccontano. Le sue immagini appaiono da subito come pensate, efficaci (è sua la famosa frase che non esistono belle fotografie ma solo buone fotografie) dirette, costruite ma mai artefatte. Se fa un ritratto in strada non sta lì a curare la luce o i set modificandoli, scatta con ciò di cui dispone, non cambia neanche obiettivo, preferendo scattare tutto con un 35 mm… Lui non crea, racconta. Ma i suoi racconti hanno la potenza delle parole di un grande poeta. Racconta come lui stesso ama dire con le immagini, come un giornalista fa con le parole.  Ed è lui stesso a definirsi non più come un artista ma come un giornalista. Ma come è facile intuire, di arte nelle sue immagini ce n’è tanta.

Ogni anno viene data un’enfasi mondiale ai vincitori del prestigioso Premio di Fotogiornalismo World Press Photo, e viene immediatamente da pensare a quanto le immagini classiche e intramontabili di Berengo Gardin siano diverse da queste, pur volendo entrambe raccontare il mondo per come lo ha osservato il Fotografo. Berengo Gardin sa rendere straordinaria la normalità quotidiana. Nelle immagini del WPP assistiamo invece alla spettacolarizzazione della fotografia, oggi le immagini di fotogiornalismo non raccontano: urlano. E se le immagini non urlano nessuno le ascolta. Berengo Gardin ci dimostra che è sufficiente alzarsi di 1-2 metri al di sopra della scena per avere un punto di vista completamente nuovo, diverso, insolito ma ancora tanto rasserenante, dall’altra parte le ultime due edizioni del World Presso Photo sono letteralmente invase di immagini realizzate con costosissimi droni di ultima generazione. Il risultato che si ottiene nel primo caso è il sapersi meravigliare della semplicità che era sotto i nostri occhi e che non avremmo saputo cogliere, nel secondo caso invece ci accorgiamo che ci viene mostrato un mondo distante, diverso, sconosciuto che non ci appartiene perchè tutto viene spettacolarizzato, anche il dolore.

Berengo Gardin 5
Venezia: il vaporino.

Ovviamente le fotografie sono tutte tecnicamente perfette, ben composte. La cosa che mi è piaciuta di più è proprio il linguaggio moderno e senza tempo delle foto di Berengo Gardin che riesce ad esprimersi con eleganza, efficacia e tanta chiarezza, sa farsi amare senza imporsi. Usa inquadrature classiche, con il soggetto al centro o sfruttando la regola dei terzi. Conosce bene l’importanza delle sequenze di piani e delle sfocature, sa usare le prospettive per comporre e condurre lo sguardo verso il soggetto principale, sa bene come utilizzare le linee di forza all’interno dell’inquadratura per creare enfasi sul soggetto, conosce perfettamente il valore dell’istante decisivo di bressoniana memoria. Leggendo queste ultime considerazioni ci si rende conto che la straordinarietà di Berengo Gardin si trova nel saper rendere eccellenti e meravigliose le cose che dovrebbe sapere un Allievo alla fine di un Corso Base di Fotografia!!!! E questo non sminuisce affatto l’importanza e la bravura del nostro Autore che al contrario riesce ad essere inarrivabile proprio su un piano al quale tutti potrebbero aspirare di arrivare essendo fatto con pochi mezzi e poca tecnica ma che necessita di una esperienza e una sensibilità unica e inimitabile.

i Manicomi, uno dei temi che ha seguito più a lungo
i Manicomi, uno dei temi che ha seguito più a lungo

Infine è lo stesso Gianni Berengo Gardin a raccontarci la semplicità intenzionale del suo lavoro. A raccontarci come si avvicina ad un soggetto, studiandolo prima da lontano, poi avvicinandosi pian piano ad esso, descrivendolo via via sempre più da vicino, girandogli intorno come in un rituale di avvicinamento amoroso. Mi ricorda la storia del “Piccolo Principe” che voleva creare dei legami con la Volpe la quale gli chiedeva di avvicinarsi a lei pian piano ogni giorno un pò di più e poi di sedersi senza fare nulla, affinchè lei riuscisse a conoscerlo e a fidarsi di lui per poi diventare amici. E’ proprio quello che fa Berengo Gardin con le sue immagini e i suoi soggetti.

La mostra termina con le immagini di forte denuncia di un recente lavoro sulle “Grandi Navi da Crociera” che entrano nella laguna di Venezia apparendo con la stessa grazia di un elefante in un negozio di cristalleria. Le navi appaiono gigantesche e sproporzionate all’ambiente in cui si muovono. Appaiono offensive, infinitamente più grandi della città in cui navigano. Le sentiamo minacciose per la loro forza e violenza, per la loro modernità che troppo si contrappongono con la fragilità storica della Serenissima.

Roberto Gabriele
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Berengo Gardin 10
per la serie sulle Grandi Navi da Crociera

E’ morto Fulvio Roiter

Ricordo Fulvio Roiter fin da quando ero un ragazzino: mio padre comprò un suo libro fotografico e me lo mostrò. In verità mio padre non è mai stato un appassionato di Fotografia in senso stretto, ma quel libro ben fatto, quelle foto suggestive su Venezia e il suo Carnevale attrassero la sua attenzione di uomo curioso e affamato di cultura in senso generale e lo comprò insieme a migliaia di altri libri di arte e letteratura che avevamo in casa.
E quel libro finito in casa mia insieme ad una piccola collezione di altri Grandi Fotografi furono un pò la mia iniziazione fotografica. Non pensavo da anni a questi fatti, eppure quel libro iniziò a farmi sognare ad occhi aperti. Iniziò a mostrarmi un modo di raccontare il mondo con le immagini invece che con le parole.
Fulvio RoiterErano i rampanti anni ’80 e io guardavo quelle foto di Venezia scattate durante il Carnevale alla fine degli Anni’70. Sono passati quasi 40 anni e quelle immagini ci portano ad una Venezia che non c’è più. La Venezia di Fulvio Roiter infatti è una Venezia ancora relativamente poco turistica.
Roiter Passeggiata alle ZattereNelle sue immagini ci sono vastissimi scorci della città quasi completamente deserta, oggi sarebbe impensabile per chiunque poter pensare di scattare foto di giorno con Piazza San Marco vuota e senza turisti.
Ricordo che quando guardavo le foto di Fulvio Roiter (allora non avevo alcuna competenza fotografica, le sfogliavo come un quindicenne curioso troppo grande per leggere Topolino e troppo giovane per studiare Fotografia) mi appariva in tutta la sua forza il detto: “Quanto è triste Venezia”. Vedendo quelle foto Venezia mi sembrava davvero tanto triste, la nebbia del mattino, in alcune persino la neve, l’acqua alta e i le onde nei canali.
Roiter UmbriaAppena ho saputo della sua morte, che è stata oggi 19 aprile 2016 all’età di 89 anni, sono andato a cercare il suo libro che avevo gelosamente conservato in tutti questi anni e puntualmente l’ho ritrovato dopo 4 traslochi esattamente dove doveva stare, insieme agli altri libri della stessa Collana dei Grandi Maestri dei Fratelli Fabbri Editori. Si trovava in ottima compagnia, a stretto tra le copertine di Tina Modotti e Jeanloup Sieff (in ordine alfabetico) e poco più in là della stessa serie c’erano David Hamilton, Cartier Bresson e altri illustri colleghi. Stranamente il nostro Roiter era l’unico con la copertina grigia invece che nera… “Serie Argento“….
Roiter Cartolina

Riceviamo da Donatella Bisutti un bel contributo, un racconto vissuto in prima persona di un viaggio fatto con Fulvio Roiter. Un pezzo di vita vera, il ritratto di un grande Fotografo

RICORDO DI FULVIO ROITER – UN VIAGGIO IN CAPPADOCIA

Ieri è morto a 89 anni un grande fotografo, Fulvio Roiter. Abitava da anni al Lido di Venezia ed era diventato famoso soprattutto per le foto che aveva dedicato a Venezia e al suo Carnevale. Ma in realtà per anni la sua grande passione era stata viaggiare e aveva percorso mezzo mondo ricavandone una serie di libri fotografici che si distinguevano per il rigore e l’originalità compositiva con cui trasformava il reportage in opera d’arte secondo uno stile del tutto personale. Roiter era in certo modo un “pittore della fotografia”.

Io l’avevo conosciuto tantissimi anni fa e da allora eravamo diventati amici, anche con la moglie belga. Io allora ero una ragazza molto giovane e, per circostanze familiari – mio padre aveva fondato a Istanbul una società per conto della Pirelli – abitavo con i miei in Turchia, un Paese che mi affascinava e a cui per questo mi sento ancora legata. Ma siccome volevo tornare in Italia e costruirmi una vita mia – mi ero appena laureata, in Belgio, sempre per via del lavoro all’estero di mio padre – e sognavo di diventare giornalista, scrissi di mia iniziativa il diario di un viaggio alla scoperta delle antiche colonie greche dell’Asia minore, principalmente Smirne ed Efeso. Allora non c’era in quella regione alcuna attività turistica e gli archeologi francesi e tedeschi stavano solo cominciando a disseppellire rovine che ridisegnavano quelle città facendole risorgere da un paesaggio deserto, da cui nei secoli il mare si era ritirato. Fu così che scoprii, tra parentesi, l’archeologia – che fino ad allora avevo associato al chiuso un po’ muffito dei musei – come un’eccitante avventura. Mandai questo articolo all’unica rivista che avevo allora a portata di mano, e cioè alla rivista Pirelli, una rivista insigne che per qualche tempo aveva avuto come direttore anche un grande poeta come Vittorio Sereni. Il direttore di allora che credo fosse Castellani, dopo aver precisato che non pubblicava l’articolo per via di mio padre ma perché gli era piaciuto – e questo mi riempì di orgoglio, e riempì mio padre di stupore – a riprova di questo fatto inviò sul campo Fulvio Roiter che allora era ovviamente un giovane fotografo . Lui arrivò con la moglie Louise detta Lu, che per combinazione era belga, Paese in cui io avevo vissuto per anni. Facemmo subito amicizia. Fulvio Roiter allora non era ancora famoso, ma chi se ne intendeva lo considerava già un grande fotografo. Lui e la moglie erano una giovane coppia povera, perché lui era molto selettivo: non voleva lavorare per giornali e settimanali come avrebbe potuto, ma solo per due riviste che secondo lui gli davano la garanzia di una qualità di stampa ottimale, la rivista Pirelli appunto e la storica rivista svizzera Du. Avendo pochi soldi alloggiarono in qualche sorta di ostello e ricordo che venivano a fare la doccia a casa nostra.

Insomma Fulvio arrivò in una tenuta un po’ hippy e subito disse: ok, ho letto l’articolo e vado a fare le foto in Asia minore, però tu devi scrivere un altro articolo sulla Cappadocia e insieme dobbiamo andare a Goreme. Goreme oggi è famosa per le sue chiese e abitazioni scavate nel tufo ed é una delle mete turistiche privilegiate in Turchia, sfondo per ambientazioni cinematografiche. Ma allora nessuno ne sentiva parlare. Io c’ero stata qualche tempo prima con un gruppo della cosiddetta colonia italiana locale, che comprendeva alcune persone di origine italiana che vivevano a Istanbul o ci erano venute per lavoro, come un simpaticissimo professore di matematica napoletano che insegnava al liceo italiano, liceo che esiste credo ancora oggi. Avevamo noleggiato uno scassatissimo pullman e avevamo affrontato un viaggio non da poco. Di turisti nemmeno l’ombra. Credo che fummo i primi ad arrivare a Goreme. Ricordo che ci facevano entrare nelle case e ci facevano sedere a un tavolo, ci portavano frutta, dolci e loro in piedi ci circondavano e ci guardavano mangiare.

Le donne ci toccavano i vestiti per vedere com’erano fatti , palpare la stoffa, e siccome allora andavano di moda in Italia delle sottogonne di una sorta di crinolina, ci sollevavano le gonne per guardare sotto e così anch’io ne approfittai e scoprii che i loro pantaloni “turchi” erano in realtà gonne cucite nel mezzo.

Tornando a Roiter, non era possibile dirgli di no, anche se era estate e c’erano più di quaranta gradi. A Istanbul era arrivato anche il mio fidanzato, poi diventato mio marito, e mio padre gli affidò la sua macchina con mille raccomandazioni. Così partimmo in quattro per un viaggio di mille chilometri che si rivelò una vera avventura. Un’avventura indimenticabile. Il viaggio procedeva a rilento, perché Fulvio ogni poco gridava a Roberto di fermarsi perché aveva visto qualcosa da fotografare e si buttava fuori dalla macchina con la sua Canon appesa al collo. Ma non era mai questione di un attimo, perché lui, proprio come un pittore, non accettava la realtà com’era, ma voleva crearla. Per esempio vedeva alcune donne che lavavano i panni in un torrente, però non formavano quella composizione che aveva in mente lui, e che si ispirava a un’idea grafica, in cui la natura e la presenza dell’uomo si accordavano in una forma che tendeva all’astrazione. Allora lui si metteva in attesa, e noi con lui, ma chiaramente con un interesse minore del suo. Tuttavia non c’era verso di smuoverlo, finché spontaneamente le figure del quadro non avessero assunto le posizioni e il ritmo giusto. Chiaro che non bisognava avere fretta. Finalmente scattava e potevamo ripartire.

A questo ritmo arrivammo all’ora del tramonto in vista di Goreme, dove sapevamo esistere da poco una piccola locanda. Ci stavamo inoltrando nel paesaggio lunare di Goreme, fra pareti e coni di tufo rosato perché illuminato dalla luce obliqua del tramonto, quando con un soprassalto una scena magica, a una curva, si presentò davanti ai nostri occhi: la Fuga in Egitto!

Su un asinello che procedeva lungo il bordo della strada, davanti a noi, c’era una donna vestita come la Madonna di azzurro, con il capo ricoperto di una stoffa bianca che le scendeva a guisa di velo lungo le spalle, l’asino era condotto dal marito che camminava a piedi tenendolo per la cavezza. Fermo! gridò immediatamente Fulvio e la nostra macchina si arrestò di botto, mentre lui come un pazzo si buttava sulla strada e cominciava a fotografare. Ma l’uomo, infastidito, subito aveva fatto cenno alla moglie di nascondere il viso e lei aveva girato il capo verso la parete di tufo , dandoci le spalle e stringendosi addosso il velo bianco, mentre l’uomo pungolava l’asino perché si affrettasse ad allontanarsi e intanto faceva segno a Fulvio di smettere, di andarsene, con aria va via più minacciosa. Fulvio!, lo chiamammo io e Lu, preoccupate. Ma lui niente. Non poteva perdersi una scena così. Tutto successe in un attimo: l’uomo aveva improvvisamente estratto una roncola e si stava gettando su Fulvio, in un secondo gli avrebbe forse staccato la testa. Lì ammirai la freddezza e la presenza di spirito di quello che allora era il mio fidanzato: poiché Fulvio e l ‘uomo si trovavano alle nostre spalle rispetto alla posizione della macchina ferma, lui innestò subitamente la retromarcia puntando con l’auto dritto contro l’uomo, che arretrò, e intanto passando accanto a Fulvio io e Lu lo afferravamo e lo trascinavamo dentro la macchina senza riguardo per la preziosa attrezzatura fotografica penzolante dal suo collo e sbatacchiata qua e là. Innesto della prima e via, mentre una pietra mancava di poco il lunotto posteriore dell’auto affidataci da mio padre con tante raccomandazioni .

Scendeva la sera, trovammo un luogo dove nasconderci e aspettare. Come entrare nel villaggio, ci chiedevamo, dove nel frattempo il vecchio doveva essere arrivato e aver dato l’allarme? Come saremmo stati accolti?

Decidemmo di aspettare il calare delle tenebre per raggiungere la locanda inosservati. E così andò. Eravamo in salvo. Ma l’indomani?

Anche qui ci venne in soccorso un’idea: chiedemmo al proprietario della locanda se poteva procurarci qualcuno del luogo che ci facesse da guida. E al mattino presto arrivò Mehmed , un ragazzo giovane, aitante e simpatico, che miracolosamente parlava anche inglese. Andammo a piedi all’interno del villaggio con lui, che coscienziosamente voleva illustrarci tutto quanto c’era da vedere. Davanti al nostro disinteresse per le sue spiegazioni, rimase perplesso e deluso, finché gli dicemmo la verità: in realtà quello di cui avevamo bisogno era una guardia dl corpo e anche qualcuno che persuadesse gli abitanti a farsi fotografare. Quando Mehmed ebbe capito, ritornò di buon umore e si divertì ad aiutarci: grazie ai suoi buoni uffici Fulvio poté fotografare tutti quanti. Mehmed salì in macchina con noi e cantava in turco delle ballate bellissime, ci eravamo affezionati a lui ed eravamo diventati amici. Con grande dolore apprendemmo pochi mesi dopo che era morto in un incidente stradale.

Donatella BisuttiRoiter VeniseFleuril Critico Michele Smargiassi su Repubblica.it pubblica su Fulvio Roiter un Articolo che puoi leggere cliccando qui.

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