L’ultimo zampognaro

Benvenuti in Molise

Questa è la storia dell’Ultimo Zampognaro d’Italia. Dicembre è il mese di Natale, e mentre la tradizione anglosassone porta l’immaginario collettivo tra renne e abeti innevati accompagnati dal suono di jingle e campanelle, le atmosfere legate al Natale italiano si caratterizzano con presepi, paesini illuminati e per il caratteristico e inimitabile suono delle zampogne.

In Molise c’è Scapoli, il paese delle zampogne: qui persino la musica di attesa del centralino del Comune è suonata con la zampogna.

Scapoli, in Molise è il Paese delle Zampogne. Foto: ©Roberto Gabriele

Scapoli è il tipico paesino appenninico adagiato sul costone della montagna: ci troviamo in Provincia di Isernia, ai piedi del Monte Marrone, nella catena delle Mainarde, teatro dell’omonima Battaglia del 31 marzo 1944 che servì a far indietreggiare la linea Gustav dell’esercito tedesco arroccatosi sulla cima. Oggi solo 600 anime popolano questa piccola località che in 20 anni si è quasi dimezzata per numero di abitanti.

Scapoli è una località fuori dal tempo che cerca di resistere alla fuga dei giovani verso le città: il centro storico ha solo una strada che è il corso del paese, l’ufficio postale, il Comune e 2 bar che sono il vero centro centro di aggregazione sociale degli Scapolesi, ovviamente c’è la chiesa, un minimarket e un camioncino che porta la frutta fresca in piazza ogni giorno. Alla sommità del paese ci sono i bastioni fortificati della città vecchia e il Cammino di Ronda che ancora oggi costituiscono la passeggiata da fare nelle sere d’estate.

A metà aprile a Scapoli può anche nevicare: siamo alti in quota e siamo lontani dal mare, le stradine sono deserte e silenziose, tra i suoi vicoli si sentono solo i garriti delle rondini che riempiono il cielo, nessuna voce, nessuna auto, nessuna musica: a Scapoli si può perdere l’equilibrio perchè il silenzio è talmente profondo da essere destabilizzante.

il Museo della Zampogna. Foto: © Roberto Gabriele

Le feste di Scapoli:

Ma il paese si riempie di orgoglio due volte all’anno: a Carnevale quando viene fatta la festa del Raviolo Scapolese, e d’improvviso il paese si riempie di migliaia di persone che vengono a mangiare questa specialità che non ha uguali nella cucina italiana: è un raviolone enorme, la porzione normale ne prevede solo 3 in un piatto. Poi per mesi, si ritorna nel silenzio fino a fine luglio quando c’è il Festival Internazionale della Zampogna (da due anni sospeso a causa del covid) il quale raccoglie ancora più persone che arrivano fino qui per partecipare a questo evento unico al mondo. Poi di nuovo il silenzio e la vita tranquilla con i ritmi di una volta, quelli che mancano a chi vive in città…

la calda accoglienza di una casa senza tempo. Foto: ©Roberto Gabriele

Nel 2014 alla zampogna di Scapoli è stato persino dedicato un francobollo di Poste Italiane proprio per celebrare il valore culturale di questo strumento musicale, inoltre qui si trova il Museo Internazionale della Zampogna, purtroppo anche questo al momento è chiuso a causa della pandemia e per successivi lavori di ristrutturazione che promettono saranno finiti nella primavera 2022.

Ma la zampogna non va vista in una bacheca, va ascoltata, va vissuta come i pastori, insieme ai pastori: è uno strumento che non può prescindere dalle sue origini. Strumento antichissimo, usato già dagli antichi romani (che all’epoca lo chiamavano Utriculus ossia “otre”), la zampogna è parte integrante del rapporto tra l’uomo e le sue greggi. L’esperienza più straordinaria alla quale si possa assistere è ascoltare il suono della zampogna in montagna, con i musicisti vestiti da pastori con i loro gilet di pelliccia, i camicioni bianchi o a quadri, i pantaloni di velluto alla zuava infilati nei calzettoni di lana e con le tipiche “ciocie” ai piedi e annodate sui polpacci: La ciocia è la scarpa che qui un tempo era così diffusa tra la gente da dare il nome di Ciociari a tutti quelli che le indossavano e anche la Ciociaria (che si stende in tutto  il basso Lazio tra le provincie di Frosinone e Latina) prende il nome da questa gente e dalle loro calzature. Tutti vecchi ricordi, tradizioni ancora vive nel cuore della gente che però li ha persi nel loro valore di quotidianità…

Zampognaro
Le tipiche ciocie, sono le tipiche calzature degli zampognari. Da qui il nome della Ciociaria. Foto: ©Roberto Gabriele

Un pezzo di storia:

L’unico eroe che è rimasto attaccato in tutti i sensi alla cultura della sua terra è il Maestro Franco Izzi. Un uomo, un pastore, l’ultimo zampognaro rimasto che ha deciso di vivere e lavorare costruendo zampogne, altri artigiani realizzano zampogne, ma lui è l’unico che ancora lo fa per professione.

Il Maestro Franco Izzi, ultimo costruttore di zampogne professionista rimasto a Scapoli. Foto: © Roberto Gabriele

Sono stato un paio di giorni con questo uomo forte e deciso, di solidi principi e dal carattere apparentemente introverso. In realtà Franco Izzi dietro la sua coriacea scorza da pastore, da montanaro, nasconde una grandissima voglia di socializzare e di condividere il suo sapere, la cultura popolare nella quale è cresciuto e della quale è un vero ambasciatore con noi “gente di città”.

Ero andato fino a Scapoli per intervistarlo, per fargli un pò di domande sulla sua musica, sul suo lavoro, sulle zampogne… Al primo incontro mi ha spiazzato: non ci eravamo mai visti ma lui mi ha accolto come un vecchio amico invitandomi a pranzo, un indimenticabile pranzo frugale e straordinario: si mangia quello che c’è, come si farebbe con un ospite di famiglia.

Capii subito che c’era molto da imparare da quest’uomo. Un bel piatto di pasta, una bistecca di bovino allevato in libertà e una bella insalata mista. Semplice e naturale. Osservai le grandi mani di Franco abbracciare il pane e tagliarlo con cura, con il rispetto rituale che si ha per le cose sacre. Quelle mani sagge mi davano sicurezza, mani forti di campagna abituate a lavorare: mani da zampognaro, così diverse da quelle di un pianista.

Zampognaro
Le mani di Franco Izzi hanno la sacralità di un gesto nel tagliare il pane. Foto: ©Roberto Gabriele

La casa di Franco la trovai bellissima, senza tempo, il calendario in cucina fermo a dicembre 1956, tutto era semplice e incredibilmente accogliente, senza fronzoli: pietre a vista sui muri, un tavolo, le sedie, una poltroncina e il caminetto che, oltre a riscaldare l’ambiente, ci è servito per cucinare la bistecca. Davanti a noi i suoi quattro cani, ordinatamente seduti sul divano, ci osservavano armeggiare per preparare il pranzo.

Il Maestro con uno dei suoi cani. Foto: ©Roberto Gabriele

Franco è un filosofo, ha il buon senso tipico della brava gente, di quelli che vivono tra regole dalle quali vorrebbero scappare. Il tempo a tavola con lui è volato veloce: i sapori, i profumi, gli argomenti di discussione sono stati vari ma ancora non riuscivamo a parlare di zampogne… Ero venuto apposta per parlare di questo, ma mi accorsi che c’era molto di più in quest’uomo da ascoltare, da imparare… Dopo pranzo, verso le 15, mi fece fare il giro di casa: nell’altra camera c’era il pc, la tastiera con la quale studia musica…

la sala studio di Franco Izzi con il PC e quel che serve per suonare. Foto: © Roberto Gabriele

Ad un certo punto si allontanò e quando ritornò era vestito da zampognaro: quello era il momento di parlare di musica e Franco iniziò ad indossare i panni del grande esperto: mi parlava di toni, semitoni, ottave e chiavi, mi spiegò esattamente come funziona la zampogna, la sua storia, le dimensioni, le difficoltà per suonarla e gli accorgimenti costruttivi per costruirla, mi parlava di bordone e di canto, di otre e di campana…

Io lo ascoltavo affascinato senza purtroppo riuscire a capire altro che la sua enorme passione, la competenza che metteva e mette ancora oggi nel suo lavoro. Mi rendevo conto di avere davanti a me una pietra miliare, un testimone e un protagonista della storia della musica tradizionale italiana, questo clima di armonia mi ispirava a fotografare ogni cosa che avevo davanti ai miei occhi in quel momento.

Zampognaro
L’uomo, la sua casa, il suo lavoro. Foto: © Roberto Gabriele

Franco mi parlava con comprensibile orgoglio del suo “Bordone Modulabile” da lui inventato e poi brevettato a Campobasso: una innovazione che ha portato la zampogna a diventare uno strumento completo, ovvero con la possibilità di avere tutto il giro armonico della propria tonalità. Una lezione di musica, di scale, di tonalità e armonie… Pur non capendo restavo incantato ad ascoltare il suo modo di esporre i concetti.

canne e bordoni appena torniti aspettano di essere montati sulla zampogna. Foto: © Roberto Gabriele

Ma in casa si parla tra persone, ma per parlare di musica siamo scesi dove la musica si costruisce, ossia nella bottega. “Casa e bottega” si dice, e qui è davvero così: alla bottega si accede direttamente dalla scala interna di casa.

Uno uomo, la sua casa, il suo lavoro, la sua vita. Foto: © Roberto Gabriele

E mentre io impazzivo in quella bottega profumata di essenze di legno stagionato e per quella luce con intensità variabile “a zone” diversa in ogni  angolo della stanza, Franco mi mostrava con le sue mani forti tutti i procedimenti costruttivi delle sue zampogne. Eccolo quindi a raccontarmi della realizzazione dell’ancia e la tornitura delle canne. Poi mi mostrava i suoi legnami invecchiati per 8 lunghi anni prima di poterli lavorare per farli diventare canne o bordoni di una zampogna…

Zampognaro
La zampogna con le iniziali personalizzate del musicista. Foto: © Roberto Gabriele

Franco il suo museo della zampogna privato se lo è fatto nel laboratorio e tra una spiegazione e l’altra mi portò fuori, nel vicoletto, poi si mise nascosto dietro una delle finestre del Cammino di Ronda che faceva da cassa armonica e abbracciando la sua zampogna da 32 iniziò a suonare riempiendo delle sue note tutta la valle.

Una sorta di flash mob con il quale marca di tanto in tanto il territorio: il suo concerto improvvisato serviva a ricordare a tutti che lui è veramente l’ultimo zampognaro.

Alle pendici di Monte Marrone. Foto: ©Roberto Gabriele

L’Uomo e la Montagna:

Ma l’indomani Franco mi invitò di nuovo a pranzo: per me aveva ancora qualcosa di veramente speciale, prima di salutarci decise di esibirsi in un concerto privato solo per me al Monumento ai Caduti di Monte Marrone. Un momento veramente toccante, vibrante, un grande omaggio a tutte le Vittime della guerra cadute da ambo le parti.

Franco non esitò neanche un attimo: si arrampicò a diversi metri di altezza su una serie di blocchi di cemento sovrapposti (uno per ciascuna Regione Italiana) e da lì sopra iniziò a suonare le sue note: la “Ninna nanna del bambino” un pezzo appositamente composto da lui per questo luogo. Salì in alto perchè il vento potesse portare la sua arte lontano e donarla a chi non ha potuto ascoltarla in vita…

Le note della zampogna vengono donate alla valle. Foto: © Roberto Gabriele

E sulle note potenti e acute delle ance della zampogna arrivò per me il momento di tornare a casa. Grazie, Maestro: mi hai donato la tua amicizia, la compagnia dei tuoi cani, la luce del tuo laboratorio che odora di legno resinoso… E infine mi hai regalato l’arietta fresca delle tue verdi montagne molisane.

Zampognaro
Grazie, Franco. Giornata indimenticabile. Foto: © Roberto Gabriele

Foto e parole di Roberto Gabriele

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Le campane del Santo Padre

foto e parole di Roberto Gabriele

Oggi ci troviamo in Molise, deliziosa Regione italiana poco più grande della Valle d’Aosta ma quasi totalmente sconosciuta al turismo. In tutta la Regione vivono circa 400 mila abitanti, grosso modo quelli di un popoloso quartiere di una città come Roma o Napoli.
L’ambiente (a parte pochi chilometri di costa adriatica) è quello delle montagne appenniniche, la Maiella è poco distante, il territorio è totalmente verdeggiante con boschi a perdita d’occhio e si trova qualche campo coltivato anche se l’agricoltura non è la principale forma di economia rurale da queste parti.

Le fasi della lavorazione delle campane – Foto: © Roberto Gabriele

Ma il Molise non è solo Paesaggi, riesce a stupirci con paesini arroccati e scenografici come Pescopennataro che sembra circondata dalla Dolomiti, o il Teatro Italico di Pietrabbondante che è ancora perfettamente conservato nonostante i suoi 2000 anni di storia. E poi ci sono tradizioni culinarie sempre legate alla società agropastorale e alle vecchie tradizioni come i celebri Ravioli Scapolesi, i sughi fatti con il ragù di pecora, la pasta fatta in casa e salumi locali di produzione artigianale introvabili nei negozi…

Si arriva in Molise in circa 3 ore di auto da Roma, ma vale la pena dedicare a questi luoghi almeno un week end lungo: 4-5 giorni sono l’ideale per scoprirli con la giusta calma, anche perchè le strade anche extraurbane spesso sono strette e la velocità media di spostamento è di circa 50 chilometri orari.

Calchi in gesso da usare per fusioni di bronzo a “cera persa” – Foto: ©Roberto Gabriele

In questa Regione, ci sono -come spesso accade in Italia- delle eccellenze uniche al mondo; una di queste su tutte, vale il viaggio fino a qui. Stiamo parlando della Pontificia Fonderia di Campane Marinelli che dal 1924 con una Bolla di Papa Pio XI  è l’unica al mondo ad avere l’onore di  potersi fregiare dello Stemma Pontificio per rappresentarlo nel volto delle campane che qui vengono fuse.
Entrando in questo luogo si sente subito qualcosa di diverso. Già il museo della campana ha cimeli che raccontano 700 anni di storia: qui è conservata la più antica campana firmata Marinelli della quale si abbia data certa che risale al 1339 ad opera di Nicodemo Marinelli (detto Campanarus), ma notizie non provate fanno risalire le prime notizie intorno all’anno 1000…

L’archivio dei calchi in gesso è una delle aree più importanti della Fonderia Marinelli – Foto: ©Roberto Gabriele

Dopo la seconda guerra mondiale i Marinelli costruirono il concerto di campane per la Cattedrale di Montecassino, distrutta dai bombardamenti. Il legame di Marinelli con la Santa Sede viene poi ulteriormente celebrato con la storica visita del 19 marzo 1995 di San Giovanni Paolo II. Ma il fascino di questo stabilimento non è tanto la sua storia, quanto la sua sacralità…

Un lavoro che ha un valore sacro – Foto: ©Roberto Gabriele

“La voce di Dio”:

L’antica città sannita di Agnone è giustamente nota per essere il “Paese delle campane”, ma il merito della sua fama lo deve proprio alla famiglia Marinelli che da 10 secoli tramanda di padre in figlio la difficilissima arte campanaria e pare che questo sia il più longevo stabilimento al mondo per la fabbricazione delle campane.

Una campana non è e non può in nessun caso essere vista “solo” come un prodotto artigianale. E’ un prodotto che nasce appositamente per creare un legame tra l’uomo e il divino a tal punto che qualcuno dice che le campane sono “la voce di dio. Ed in effetti, il loro suono che riecheggia anche a grande distanza nasce proprio per chiamare i fedeli ai momenti di rapporto con Dio.

Anche il momento della fusione del bronzo è qualcosa che va molto oltre la metallurgia ma che rientra nel rituale sacro. Le campane non vengono mai prodotte in serie nè per fare magazzino di pronta vendita, ogni pezzo viene realizzato su commissione con una attenta scelta anche degli elementi decorativi e delle scritte che andranno a rifinire la superficie. Al momento della fusione del bronzo nel suo stampo a cera persa, ci sarà un sacerdote per effettuare la Benedizione del Fuoco. Ecco quindi che anche nelle fasi più concrete e materiali della produzione, c’è la sacralità rituale del momento che viene celebrato con una profondità e una spiritualità che non si trovano in nessun altro procedimento industriale o artigianale.

Durante la fusione ci sono le invocazioni e a volte anche un sacerdote che fa la “Benedizione del Fuoco” – Foto: ©Roberto Gabriele

Dal bronzo fuso nasce la campana benedetta con l’acqua santa che si mescola al fuoco in un rito ancestrale di grande suggestività fatto di arte e preghiera. Molto spesso a questo evento partecipano intere comunità parrocchiali che vanno ad assistere alla nascita della loro campana.

La fusione è un momento suggestivo che va verso la sacralità – Foto:©Roberto Gabriele

Qui tutto è rituale, ogni gesto sa di antico, è misurato, tramandato di padre in figlio da secoli. Entrare nella sala dei calchi di gesso che andranno a formare le  decorazioni che appariranno in bassorilievo sulle campane è un’esperienza mistica. Ci sono migliaia di immagini sacre che possono essere applicate sulla campana a seconda delle necessità. Si possono scegliere immagini della Trinità, della Madonna e praticamente di tutti i Santi, degli angeli e di tutta la simbologia legata alla cristianità. Ma la personalizzazione viene completata con scritte e date commemorative, con preghiere e versetti biblici. Ogni scelta è definitiva, resterà per sempre scolpita sulla campana e anche questo ci fa sentire la sensazione di qualcosa che nasce per essere eterno.

Dietro la perfezione di una campana c’è un lavoro pesante in fonderia – Foto: ©Roberto Gabriele

Per creare la campana occorre innanzitutto scegliere la nota, perchè entrando qui la prima cosa che si impara è che il detto “essere stonato come una campana” è del tutto falso! E’ vero l’esatto contrario: le campane sono intonatissime, ciascuna  suona una sola nota ma lo fa in modo perfetto seguendo la Scala Campanaria che è un insieme di regole e misure relative allo spessore, al peso, alla circonferenza e all’altezza che sono rapportate tra loro in base al timbro sonoro che si vuole ottenere. E’ possibile calcolare con assoluta precisione il suono che emetterà una volta finita e senza bisogno di ulteriori intonazioni. L’armonia, la matematica e la perfezione divina trovano un punto di incontro nella costruzione di una campana.

Le decorazioni faranno parte della fusione della campana e vengono applicate a mano – Foto: ©Roberto Gabriele

La Pontificia Fonderia:

Armando e Pasquale Marinelli con i loro figli guidano un’Azienda che esporta eccellenza in tutto il mondo,  ma parlando con loro ci si sente a casa, accolti come in una famiglia. Qui non ci sono i ritmi frenetici e l’ansia di fatturato e di produttività di una multinazionale, qui c’è il rispetto per le persone, per i loro gesti, per il tempo che dedicano al lavoro. In questa fucina tutto è etico, sostenibile, naturale, sequenziale. Anche i dialoghi tra le persone sono misurati: qui si parla a bassa voce, non serve urlare perchè non ci sono macchine al lavoro, ma solo uomini e donne che hanno gesti misurati, rituali.

Si percepisce a pelle la passione e la dedizione di tutti per il lavoro che fanno insieme fianco a fianco. Una intera azienda al lavoro per mesi per realizzare un solo pezzo che non ha elettronica per funzionare, che non ha bisogno di essere progettato e disegnato perchè la sua forma è talmente perfetta da non poter essere cambiata in alcun modo. Un solo pezzo di bronzo in grado di essere un prodotto finito la cui nascita, per quanto è perfetto, è già un miracolo. Qui sono la passione e la fede a muovere tutto: un binomio inscindibile.

Un’azienda con 1000 anni di storia familiare legata alle tradizioni e con un occhio alla modernità – Foto: ©Roberto Gabriele

Parliamo di passione perchè questa Azienda ha un Museo grande esattamente quanto la superficie dedicata alla produzione. Una scelta coraggiosa e generosa quella di dedicare così tanto  spazio alla propria storia, a raccontare le proprie origini ma che ha portato Marinelli a produrre anche la campana commemorativa dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Stato e Chiesa si… “fondono” in questo posto.

La famiglia Marinelli cura in prima persona ogni fase della produzione – Foto: ©Roberto Gabriele

Entrando nella Fonderia Marinelli si percepisce subito un forte odore di officina, di fumo e terra bruciata e di metalli limati, di concretezza e operosità.  Il processo di produzione di una campana è affascinante e dura diversi mesi. Si inizia dalla creazione dell’Anima alla realizzazione del Mantello e della Falsa Campana che è un’intercapedine perfettamente identica alla campana che vi verrà fusa all’interno mediante un procedimento a Cera Persa.

Non è uno spazio silenzioso come potrebbe essere un luogo sacro, ma qui anche i pochi, pochissimi rumori che  si sentono sembra che servano a scandire il tempo, il tempo della giornata, il tempo di una vita e di una tradizione plurisecolare.

Si fonde la cera per creare scritte e decorazioni che andranno applicate sulle campane – Foto: ©Roberto Gabriele

Nello stabilimento potrà capitare di sentire qualcuno che batte con un martello per togliere l’argilla residua all’interno della campana appena fusa, ma è un rumore ovattato, lento, mai fastidioso, è più vicino ad un tonfo pesante che esce dalle sapienti mani di chi lavora da quando è nato in questa fonderia sospesa tra l’umano e il divino. E ogni tanto il silenzio viene rotto dal Campanaro che verifica con il suo diapason la perfetta intonazione della campana prima di spedirla a destinazione. E’un suono divino, mai fastidioso: che si sia credenti o no, il fascino di questo opificio che trasuda di storia e di qualità è percepito da chiunque.

Qui vengono fuse anche delle campane commemorative non religiose come questa dedicata alla carriera del Mago Silvan – Foto: ©Roberto Gabriele

Benvenuti in Molise, terra di zampogne e campane, di tradizioni ed eccellenze tutte da scoprire. “Il Molise esiste e mena duro” ha detto Maria Centracchio, molisana, quando ha vinto il bronzo nel Judo alle ultime Olimpiadi di Tokyo: una Regione tutta da scoprire.


Acqua & Sapone

La copertina della rivista di Acqua & Sapone diretta da Angela Iantosca

Questo Articolo con foto e parole di Roberto Gabriele è stato pubblicato sulla rivista Acqua & Sapone diretta da Angela Iantosca nel numero di ottobre 2021

Travel Tales a Milano

Un’altra occasione di presentazione del TTATRAVEL TALES AWARD, sarà Giovedi 11 Novembre alle ore 19.30  da NOC – New Old Camera, in Viale S. Michele del Carso, 4 a Milano presenteremo il progetto e gli output editoriali connessi; i Tre portfoli selezionati da Il Fotografo e pubblicati nel numero di luglio / agosto della rivista, le 4 storie che compongono la sezione Travel Tales sul numero 9 di CITIES, le 21 storie che compaiono nel libroTravel Tales a cura di Simona Ottolenghi. Qui potrete vedere tutte le storie premiate a https://traveltalesaward.com/storie-premiate/

Mostreremo anche le Storie premiate con la mostra attualmente allestita a Roma da Otto Gallery.

Ospitati da Giordano Suaria saranno presenti Angelo Cucchetto, Simona Ottolenghi, Roberto Gabriele, Giovanni Pelloso, Federica Berzioli e alcuni degli Autori selezionati, tra cui Mario Cucchi, Roberto Manfredi, Giuseppina Di Falco, Alessandro Castiglioni e Tania De Pascalis.

Ricordiamo  il grande successo del Travel Tales Weekend, 1,2 e 3 ottobre 2021, che è stato il momento conclusivo di una serie di eventi nati per la promozione di progetti autoriali legati alla Fotografia di Viaggio, lanciata da Starring con Photographers.it e Isp in collaborazione con la rivista  Il Fotografo, con il supporto tecnico di  Viaggio Fotografico.it e di NOC e con il supporto operativo di OTTO Rooms e OTTO Gallery

Come arrivare:

Saremo a Milano in Viale San Michele del Carso 4 presso New Old Camera.

  • Metro 1 CONCILIAZIONE
  • Tram 10 16 fermata Piazzale Baracca
  • Bus 50, 57, 67, 68 fermata Piazzale Baracca

Oppure clicca su questo link: https://goo.gl/maps/FWfdHbtewbK3XmEq8

Travel Tales Weekend

Travel Tales Weekend, è il momento conclusivo di una serie di eventi nati per la promozione di progetti autoriali legati alla Fotografia di Viaggio, lanciata da Starring con Photographers.it e Isp in collaborazione con la rivista  Il Fotografo, con il supporto tecnico di  Viaggio Fotografico.it e di NOC e con il supporto operativo di OTTO Rooms e OTTO Gallery a cui si aggiunge per l’iniziativa Officine Fotografiche Roma, una delle maggiori strutture  dedicate alla Fotografia.

Rispettando lo schema di iniziative previste dall’Award la commissione composta da Angelo Cucchetto, Giovanni Pelloso, Roberto Gabriele, Simona Ottolenghi, Loredana De Pace e Paolo Petrignani ha selezionato 50  Storie tra tutte quelle che hanno partecipato all’Open Call dell’Award, e tra queste  sono infine state scelte le storie poi premiate con le varie possibilità previste, che potete vedere a  https://traveltalesaward.com/storie-premiate/ 

È quindi arrivato il momento di festeggiare, e per farlo degnamente abbiamo strutturato un’iniziativa dedicata a Roma, TRAVEL TALES AWARD WEEKEND, grazie al supporto dei nostri partner. La festa inizierà venerdi  1 ottobre con la serata di premiazione dedicata da Otto Gallery, e proseguirà sabato da Officine Fotografiche.

Per il week end (vedi programma qui sotto) abbiamo previsto una grande mostra finale con una selezione di Autori che verranno esposti a Roma dal 1 ottobre al 30 novembre 2021, la letture di portfoli di viaggio, la presentazione di Cities 9 e del libro “Travel Tales – Storie di viaggi e di viaggiatori“, una tavola rotonda e un tour fotografico a Roma con Roberto Gabriele.

Una grande festa nella quale tutti gli eventi SONO GRATUITI MA E’ NECESSARIO PRENOTARE con il form qui sotto, nel rispetto delle norme anti covid.

Mostra:

Gli Autori (e i loro viaggi) esposti in mostra presso OTTO Gallery saranno: Maurizio Trifilidis (Cina), Ilaria Miani (Afghanistan), Alessandro Zaffonato (Romania), Alessandro Castiglioni (Siberia), Tania De Pascalis (Marocco), Roberto Manfredi (India), Laura Loiotile (Cuba), Lia Taddei (Uzbekistan), Roberto Malagoli (luce del Mondo), Laura Pierangeli (Bhutan), Giulio Cesare Grandi (India). La curatela della mostra è di Simona Ottolenghi che ha progettato anche l’allestimento dello spazio.

Letture Portfolio:

Due mattinate (sabato 2 e domenica 3 ottobre) interamente dedicate alla lettura dei portfoli. Giovanni Pelloso, Angelo Cucchetto e Simona Ottolenghi saranno disponibili gratuitamente per esaminare progetti e fare consulenze gratuite di Autori che si sono dedicati alla Fotografia di Viaggio. L’attività è completamente gratuita ma occorre prenotarsi con il form qui in basso.

La copertina del libro “Travel Tales – Storie di viaggi e di viaggiatori”

Libro:

Il libro “Travel Tales – Storie di viaggi e di viaggiatori” edito da Starring ha selezionato 21 progetti autoriali di fotografia di viaggio e li ha pubblicati in un prezioso volume che presenteremo sabato pomeriggio presso Officine Fotografiche. Questi gli Autori presenti: nel volume a cura di Simona Ottolenghi:  Milot market di Stefano Bianchi, Nel segno di Evo di Massimiliano Cambuli, Siberia on the road di Alessandro Castiglioni, Rasputin di Alessandro Castiglioni, Cobra Grande di Pierluigi Ciambra, Che ne Saharà di noi di Mario Cucchi, Kupkari di Carmen Garcia, Quel treno Asmara – Arbaroba di Gualtiero Fergnani, I colori della luce di Roberto Malagoli, The Shoe Factory di Marco Marcone, I suoni del silenzio di Jessica Melluso, Ebano di Adriana Miani, Tracce di Blues di Gigi Montali, Carovane del Tigrai di Riccardo Panozzo, Iran di Diego Pedemonte, Color Mundi di Laura Pierangeli, viaggiare in Italia di Vito Raho, Dolomiti on the road di Francesco Sammarco, Eagle’s Festival di Maurizio Trifilidis, Guizhou di Maurizio Trifilidis, Donne del Maramures di Alessandro Zaffonato

PROGRAMMA:

Ecco il programma previsto salvo ulteriori modifiche e restrizioni imposte dal COVID-19:

Venerdi 1 ottobre

  • 15,00 – 20,00 presso Otto Gallery (ingresso scaglionato con prenotazione obbligatoria)
  • Presentazione progetto Travel Tales Award e visione Storie premiate e pubblicate su Il FOTOGRAFO, NocSensei, CITIES. Libro Travel Tales.
  • Opening Mostra Travel Tales
  • Proclamazione 1°, 2° e 3° vincitori assoluti.
  • Ore 21,00 cena su prenotazione fino ad esaurimento posti.

Sabato 2 ottobre

10,00 – 13,00 presso Otto Gallery

  • Consulenze progettuali gratuite in slot di 20 minuti, con Giovanni Pelloso, Angelo Cucchetto, Roberto Gabriele, Simona Ottolenghi, focus sullo story telling (ingresso scaglionato con prenotazione obbligatoria)

17,00-19,00 Presso Officine Fotografiche

  • Presentazione nuovo numero di Cities 9 con 4 Progetti di Travel Tales pubblicati
  • Tavola Rotonda sulla Fotografia di viaggio, con Giovanni Pelloso, Roberto Gabriele, Simona Ottolenghi, Angelo Cucchetto e Maurizio Trifilidis
  • Presentazione con proiezione delle storie del libro Travel Tales, a cura di Simona Ottolenghi.

Domenica 3 ottobre

9,00-13,00 uscita fotografica gratuita a Roma con Roberto Gabriele, si scatta!
10,00 – 12,00, da Otto Gallery  Consulenze progettuali gratuite in slot di 30 minuti, con Giovanni Pelloso, Simona Ottolenghi e Angelo Cucchetto, focus sullo story telling (ingresso scaglionato con prenotazione obbligatoria)
Partecipare all’evento è COMPLETAMENTE GRATUITO, è però NECESSARIO PRENOTARE con il form qui di seguito e mostrare il GREEN PASS prima di entrare.

ISCRIVITI QUI A TUTTI GLI EVENTI:

Scegli il tuo orario in base alle tue esigenze: abbiamo messo un orario esteso dalle 15 alle 20 proprio per evitare assembramenti e dare a tutti la possibilità di godere al meglio della mostra e di scambiare due chiacchiere con gli Autori o gli altri visitatori. Abbiamo previsto uno slot di 30 minuti che saranno più che sufficienti per fare tutto, volendo potrai intrattenerti ancora dopo la fine del tuo orario in base ai flussi di persone del momento.

Su Carrasecare

Carnevale in Barbagia

“Carrasegare” significa carne viva da smembrare. Il ciclo della morte e della rinascita: la fine dell’inverno e l’inizio della stagione agricola.

Uomini vestiti di orbace e pelli, carichi di campanacci, con il volto annerito che sembrano venire dalla preistoria ripetendo gesti e movenze millenarie.

Il richiamo ai riti pagani, legati alla rappresentazione della morte del Dio Dionisio e della sua rinascita, portatrice dell’energia che attraverso il sangue rende fertile la terra e ne fa maturare i frutti.

Testi e foto di Andrea Del Genovese

Prossime partenze:

Per partire con noi per la Sardegna dal 16 al 26 settembre 2021: https://viaggiofotografico.it/product/sardegna-pastori-e-pescatori/

Per Carrasegare, ossia per Carnevale: https://viaggiofotografico.it/product/carnevale-sardegna/

 

Abruzzo

Le chiese di campagna, ch’erbose hanno le soglie…Così nei versi di Pascoli. La chiesetta di Madonna della strada, una frazione di Scoppito, aveva la soglia invasa dai rovi, la porta divelta a metà, pochi vetri alle finestre. L’interno era tutto imbiancato a calce, salvo una sparuta immagine di madonna che sovrastava il misero altarino. La chiesetta era la casa dei rondoni che vi avevano nidificato numerosi e che stridevano acutamente sotto il tetto, volitando in un intreccio di traiettorie mirabili, per poi uscire a guadagnare la pura aria, lanciati nel cielo turchino a compiere più ampie volute. Quell’anno era venuto, sul piazzaletto della chiesa, un operatore a proiettare su uno schermo di tela tirato su alla meglio, una serie di vecchie comiche di Ridolini, tutte spezzettate. Una seconda volta, invece, fummo fortunati ad assistere, non so come, ad un film abbastanza recente intitolato “Sabotatori”, film che io vidi da una posizione molto defilata da cui le figure apparivano appiattite e allungate. 

Era trascorso solo qualche anno da quando avevano spesso di transitare, sullo stradale davanti alla chiesetta, tutti quegli autocarri militari scoperti, carichi di soldati armati, uomini scuri di pelle, tutti con turbanti sul capo. Uno di quegli anni vi era passata la Mille Miglia, che avevamo ansiosamente atteso in molti, restando ad aspettare il passaggio di Tazio Nuvolari e seguitando poi a parlarne per molti giorni. Era quello il tempo in cui la figura di uomo ideale era per me il meccanico. Alla fornace ce n’era uno di nome Dante, un uomo che stava tutto il tempo a manovrare su una moto, che provava da ferma facendone andare il motore a tutta callara, come diceva lui, spandendo intorno un odore acuto di olio di ricino fritto. Mi faceva impazzire la sua tuta tutta d’un pezzo, frusta e sporca d’olio, con la chiusura-lampo di traverso. Dante aveva mani forti, che serravano gli strumenti con calma abilità; quando aveva le mani occupate ad aggeggiare, teneva la sigaretta tra le labbra nell’angolo sinistro della bocca, strizzando l’occhio per evitargli il fumo.

     Dell’Abruzzo ricordo queste cose scabre, questa gente di campagna, i paesaggi invernali e la neve calpestata delle strade sassose, una immensa selva di biancospino, il canto dei contadini sulle aie al tempo della trebbiatura, il loro duro lavoro intorno al frumento, che lanciavano in alto con quel grande setaccio per liberarlo dalla gluma. Ecco, l’immagine dell’Abruzzo, che a scuola la maestra diceva “Abruzzi”, per noi inspiegabilmente al plurale come “le Calabrie” e “le Puglie”, l’immagine dell’Abruzzo era proprio una immagine scabra, come ho detto. Il solo fatto che quella possente montagna, quel massiccio imponente fosse semplicemente chiamato “sasso”: il Gran Sasso, mi testimonia oggi di un atteggiamento chiuso, di una inclinazione a risparmiar persino le parole, a ridurne la portata al puro significante. Questo atteggiamento, che è nella sostanza un profilo spirituale, significa alla fine una integrità, che dura sia pure per poco, il tempo che dura una favilla, ma che resta come percezione forte di un mondo costituito di pochi elementi semplici, naturali, piccoli doni dati a tutti, ma che poche volte, o una soltanto, riusciamo a vedere come grandi tesori e che, una volta intravisti per tali, restano in noi come indelebile idea del mondo, una fra le tante, bella come tante. Un mito, il “Sasso”, il sasso grande. Un altro mito di questa terra resta per me il lupo, discorro dell’epoca immediatamente post-bellica, parlo delle stragi di pecore e dello sconforto susseguente, parlo dei lupari che venivano riconosciuti come meritori difensori della comunità pastorale, tantoché riscuotevano mance in natura, alquanto risicate in verità, come sempre mi è capitato di osservare, conducendo in giro il lupo ucciso, messo di traverso su un somaro, a mostrarlo alla gente. 

     Il paesaggio dell’Abruzzo, quello che io ricordo. I prati smaltati di pioggia, l’odore della terra intrisa, l’umido respiro della terra, l’odore delle pecore; il vello folto scosta l’acqua ma esala un fortore selvatico, il pastore ha l’odore, lo stesso, delle sue pecore, il pastore vive in un cerchio di pioggia, resta sotto la pioggia senza neppur aprire l’ombrellaccio che porta a tracolla, e non cerca ricovero nella capannuccia di rami, gli bastano l’incerata e il suo feltro a punta; il pastore fischia i suoi acuti richiami da pecoraio, che servono solo a far compagnia a se stesso e a farne alle pecore, anche se sono chiuse, aggruppate strette nello stabbio di corda, al cane bianco che non ha riposo attorno al gregge, come se fiutasse continuamente un pericolo. Il pecoraio guarda in giro all’orizzonte sotto la tesa di feltro, anche se non dà a vederlo e sembra che guardi fisso alle sue pecore, invece conosce gli alberi e vede le volpi passare lontano e a notte parla alle stelle.

     Il paesaggio contiene poche cose disegnate, dovunque si guardi, quello che c’è è venuto su naturale, soltanto gli steccati sono fatti dagli uomini ma sono grezzi, intrecciati di rami storti come storti sono i muriccioli di pietre a secco; la strada asfaltata è l’unico vero disegno, la strada con la casina rossa del cantoniere, con le piazzole di materiali messe a intervalli regolari, dove dagli stradini sono stati ammonticchiati, in cumuli a forma di perfetta piramide tronca: i sassi e la ghiaia grigia per le toppe, per le riparazioni da fare usciti fuori dall’inverno. E i fontanili, sì anche i fontanili che rispecchiano il cielo sono costruiti dagli uomini, e così i calzini messi agli alberi, la fascia bianca di calce dipinta ai piedi dei tigli che seguono la strada e nella notte segnano il cammino. Tutto il resto, le macchie degli abeti le siepi fitte di rovi gli arbusti i meli selvatici i prati di fragole ribes lamponi uvaspina il ruscello il profilo dei monti, tutto è un capriccio di forme come le nuvole e la loro ombra, come i massi sparpagliati sul terreno e ricoperti di licheni e di muschio.

     L’Abruzzo! Uno stato d’animo speciale, influenzato certamente dal carattere non solo fisico del luogo, che mi ha fatto provare a lungo e molte volte quel brivido metafisico, effetto della mia natura contemplativa e della mia sensibilità panica. Così una stagione di vento, le sempre mutevoli strade che esso percorre, come le strade del cuore. Il vento soffiava quella stagione, lassù sull’Altopiano delle Rocche, in una maniera nuova per me. Era un vento strapazzone e ridente che spirava nei golfi del mio cuore e io ero pieno di vento e facevo parte del vento. Il vento, spirito della notte, sorvolava i tetti frusciando e io con esso perdevo a tratti la memoria nel sonno e a tratti la ritrovavo. Il fruscio lene di altri mondi, di mondi remoti. Avevo allo stesso tempo una sensazione di familiarità con me stesso e di estraneità. Andavo con il vento, come i nugoli di polvere vanno, come le foglie a mulinelli. Udivo il vento urtare sui vetri con violenza, sulla carta incatramata messa a riparo dove mancava una lastra. Il vento passava sotto le porte e spifferava nelle stanze…Quella fu anche la stagione delle lucciole nelle notti serene. Le vedevi per un attimo, vedevi la loro tenue luce solo per un attimo in un punto del buio e un istante dopo in un altro punto. Ma era la stessa luce, la stessa lucciola? Non vi è nella notte un maggior intenerimento che la sorpresa di guardare una lucciola accendersi indifesa sul palmo della tua mano e volare subito via. E non c’era in quelle notti sull’altopiano una visione più alta della Via Lattea, dove la mia ossessione di infinito si placava. Potevo guardare all’infinito, potevo vederlo. Una cosa nebulosa, l’infinito, una cosa imprecisa: ci sono fiamme accese a distanze siderali dove l’occhio non arriva. Ma sai che ardono malgrado i tuoi occhi. 

Abruzzo © Renato Gabriele

Facebook: https://www.facebook.com/RenatoGabrieleScrittore

 

 

 


Parti con noi dal 21 al 26 giugno 2021:

Per rivivere insieme a noi i luoghi di questa “prosa poetica” di Renato Gabriele puoi seguirci nel nostro Viaggio Fotografico che faremo in Abruzzo dal 21 al 26 giugno 2021, poi per chi vorrà il tour prosegue direttamente per il Molise e chi si iscrive ad entrambi i viaggi risparmia 100,00 Euro sul totale. Info, costi e iscrizioni sul sito: https://viaggiofotografico.it/product/abruzzo-aquila-e-pecore/

Priverno, i Sacconi del Venerdì Santo

Oggi parliamo della nostra Bella Italia e delle sue tradizioni così affascinanti che fino alle restrizioni dovute al covid 19 riempivano i calendari di tutto lo Stivale.

A pochi passi da Latina esiste (o meglio esisteva prima del covid) una realtà quasi sconosciuta eppure molto sentita: ci troviamo a Priverno e qui la Processione del Venerdì Santo ha radici profonde e un fortissimo senso religioso. Il Paese intero si riversa in strada non solo per assistere, ma per partecipare attivamente alla sacra sfilata. Tra loro le Anime Nere: due detenuti anonimi che volontariamente in segno di penitenza camminano scalzi e con i piedi incatenati portando una croce sulle spalle.

I Sacconi, le Anime Nere, sono dei Detenuti con un permesso speciale dell’Autorità Carceraria che richiedono volontariamente di espiare le loro colpe verso Dio camminando in processione. Foto: © Roberto Gabriele

A Priverno si celebra la Passione di Cristo non è una rievocazione storica come avviene in tante altre località, qui viene vissuta attraverso il suo significato simbolico.

Tutto ha inizio nella Cattedrale: i membri delle confraternite (Anime Bianche) si riuniscono in preghiera nel tardo pomeriggio. Con loro ci sono i due detenuti (Anime Nere) che con un permesso speciale dell’autorità carceraria escono appositamente dal carcere per manifestare il loro pentimento e per espiare le loro colpe davanti a Dio, e alla società seppur protetti dall’anonimato del cappuccio che ricopre i loro volti.

Le donne con i vessilli aspettano l’uscita dei Sacconi. Foto: © Roberto Gabriele

In chiesa entrano scalzi e tali resteranno fino alla fine, quando escono per la processione i loro piedi vengono legati con pesanti catene e sfilano accompagnati dai Carabinieri. Il clima è di silenziosa preghiera e di profondo rispetto. Si percepisce un silenzio sacro ma non muto. L’emozione è forte, ci si sente circondati da migliaia di persone a lutto. Dappertutto c’è un enorme silenzio. Non c’è la banda, qui si celebra in strada il funerale di Cristo.

La piazza è gremita. La processione ha inizio. Foto: © Roberto Gabriele

La folla dei fedeli esce dalla chiesa accolta da una piazza gremita di altre migliaia di persone. Tutti hanno un ruolo, chi porta un vessillo, chi un enorme lampadario a bracci che rischiarerà la marcia notturna di tutti, chi canta e chi trasporta le statue sacre della passione. E’ questo il momento in cui alle Anime nere vengono incatenati i piedi e caricate le pesanti croci sulle spalle: le portano in segno di penitenza per più di due ore.

Le Anime Bianche delle Confraternite illuminano le anime dei Penitenti portando la Luce sul loro cammino. Foto: © Roberto Gabriele

Il corteo viene aperto dai cori delle contrade che lo precedono lungo tutta la via crucis, nei vicoli vengono fatte delle soste in prossimità di tutte le chiese del paese. I personaggi incappucciati in bianco precedono le Anime Nere e ne annunciano il passaggio, poi sfilano i penitenti con i loro pesanti carichi sia dal punto di vista fisico che emotivo. Il rumore delle catene che strusciano sul selciato a sampietrini rompe il profondo silenzio che ammanta il paese e scandisce il passo dei due uomini che si fanno carico della croce di Cristo. La statua del Cristo disteso chiude poi la lunga colonna umana.

I piedi dei Sacconi legati a pesanti catene che simboleggiano il peso dei peccati portati dai Sacconi penitenti. Foto: © Roberto Gabriele

Le Anime Nere che la gente qui chiama i Sacconi, sono quelli che espiano pubblicamente le loro colpe, tutto qui è rituale e simbolico: i buoni sono bianchi, i cattivi sono neri. E’ l’alternanza tra il bene e il male, tra chi sceglie la retta via e chi la ha lasciata per poi ravvedersi. E ci sono i Carabinieri in divisa, in un apparente mescolamento tra sacro e profano, ma si tratta di un gioco di ruoli, un sottile gioco delle parti in cui ciascuno incarna un personaggio.

I Sacconi sfilano accompagnati dai Carabinieri. Foto: © Roberto Gabriele

A volte partiamo per lunghi viaggi alla ricerca di rituali lontani e culture diverse dimenticando di cercare le nostre origini sociali e culturali a poca distanza da noi. Vivere qui una serata così intensa è un’esperienza da non perdere (anche per chi non è credente): l’aspetto antropologico, culturale e spirituale è enorme. Vi sembrerà di vivere in un sogno, qui tutto è rarefatto, lontano nel tempo e nello spazio sembra incredibile ma siamo a pochi chilometri da Roma, e la spiritualità è fortissima.

Priverno riscopre una sua identità che non ha varcato i confini del proprio territorio e che quindi non è ancora diventato un’attrazione turistica. A Priverno, ogni anno, il Venerdì Santo, farete un viaggio alla ricerca di una valori dimenticati, di un’Italia che “non esiste solo al sud”.

Roberto Gabriele

La salita finale con la lunga scalinata che porta verso la cattedrale segna la fine dell’espiazione delle colpe dei Sacconi. Foto: © Roberto Gabriele

E’ morto Giovanni Gastel

Oggi 13 marzo 2021 intorno alle ore 18, il mondo della fotografia piange uno dei suoi più indiscussi Maestri.

E’ morto Giovanni Gastel ci ha lasciati oggi a soli 65 anni a causa del Covid-19. Sono cresciuto con le sue immagini: 30 anni fa, quando ho iniziato ero solo un ragazzino e lui, poco più grande di me era già Giovanni Gastel
Una persona raffinata, colta, elegante, un grande ritrattista che si è contraddistinto per le sue immagini pulite, creative, potentissimi strumenti di comunicazione che per 40 anni esatti hanno segnato la storia della fotografia commerciale, moderna e contemporanea.

Giovanni Gastel ha fotografato le donne più belle del mondo rendendole ancora più affascinanti e mai volgari, mai ammiccanti ma sempre sature di infinita personalità. Ma a parte una sua predilezione per il le donne ha fotografato anche tanti uomini, artisti, industriali, politici…

Una persona che ha sempre avuto intorno a se solo stima e mai clamore, mai uno scandalo, uno dei pochi di cui si poteva solo parlare bene e del quale mai nessuno è riuscito a mettere in dubbio l’efficacia e del suo stile semplice e inconfondibile.

Giovanni Gastel nasce a Milano il 27 dicembre 1955 ultimo di sette figli e nipote di Luchino Visconti, inizia la sua carriera nel 1981 a soli 26 anni collaborando con riviste come Vogue Italia e Rolling Stone, e firmando nei rampanti anno ’80 campagne pubblicitarie per i più grandi stilisti di tutto il mondo tra cui Versace, Missoni, Trussardi, Dior, Nina Ricci, Guerlain e molti altri.

Quel che mi piaceva di lui era la semplicità: non aveva bisogno di urlare. A Gastel bastavano pochi elementi, schemi di luce piena senza effetti drammatici e senza speculazioni. Lui sapeva tirare fuori la bellezza intrinseca dei suoi soggetti. Di lui ricordo i suoi Polaroid scattati con il banco ottico 20×25, delle opere d’arte che hanno segnato la mia formazione e la mia crescita fotografica.

La sua mostra al MAXXI di Roma è finita il 5 marzo 2021, 8 giorni fa. Di lui mi piaceva molto anche il lato umano che emergeva dalle sue pagine Social nelle quali spiegava ogni giorno i motivi della sua arte, cosa spingeva i suoi scatti, quali erano le sue emozioni a stare dietro alla fotocamera. Le pagine social in cui pochi mesi fa, nell’autunno 2020, non parlava più di fotografia ma del fatto di essere diventato nonno e della sua enorme gioia di questo.

Oggi sono triste, davvero. Di lui non voglio dire molto di più. Vi lascio con le sue parole, quelle che potete andare a leggere voi stessi sulla sua pagina facebook: https://www.facebook.com/GiovanniGastelFotografo

Ciao Maestro, grazie di aver ILLUMINATO la mia fotografia.

Roberto Gabriele


Serie “Madonne”

Gastel madonne
Serie “Madonne” foto: © Giovanni Gastel

Il progetto ‘Madonne’, ideato da me e il grandissimo stylist Simone Guidarelli, con la bellissima modella Beatrice Brusco nasce dall’idea di lasciare un interpretazione contemporanea della Vergine come tutte le epoche hanno fatto attraverso l’arte. L’ispirazione è alle Madonne barocche e andine.

Il mio amore per la figura della Santissima Vergine Maria come simbolo del massimo amore e insieme del massimo dolore è immenso!


Serie “My Ladies”

Serie “My Ladies”. Foto: © Giovanni Gastel

Le donne sono state per tutta la mia vita faro e muse del mio cammino. Ancora oggi dedico a loro il mio lavoro fotografico e letterario!

Grazie mille vi amo tutte e vi ringrazio di essermi sempre vicine.


Roberto Bolle

Roberto Bolle
Roberto Bolle. Foto: © Giovanni Gastel

Foto dell’amico e sublime danzatore Roberto Bolle che ho avuto la gioia di fotografare la prima volta a 18 anni nel foyer del teatro alla Scala quando era già un promessa della danza mondiale. Qua Roberto siede pensoso, per una volta nella platea.


Serie: Metamorfosi

Metamorfosi Giovanni Gastel
Serie “Metamorfosi”. Foto: © Giovanni Gastel

Mi ha sempre affascinato la commistione contenuta nella Mitologia tra Esseri di diversa natura. Quasi un monito a non allontanarci da essa.

Macchina: Plaubell 300 mm su Polaroid 20×25
Foto rielaborate con sovrapposizioni e filettature in post-produzione


Luciana Littizzetto

Giovanni Gastel
Luciana Littizzetto Foto: © Giovanni Gastel

Quando Luciana è arrivata da me era visibilmente contraria all’idea di farsi ritrarre. Allora ho cercato di calmarla e alla fine ne è uscito questo ritratto in cui si è riconosciuta con grande gioia.

Una donna straordinaria e un onore fotografarla.
Torna presto Luciana!
Un bacio grande grande ?
Gio

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Morto Giovanni Gastel

Appia Antica, Regina Viarum

Perchè l’Appia

Non prendetemi per pazzo, ho viaggiato in 48 Paesi ma la nostra Italia è il più straordinario di tutti e ci è voluto il Covid-19 per farmela riscoprire in tutta la sua prorompente bellezza.

Abituato a viaggiare a lungo, lo faccio spesso seguendo le strade storiche di tutto il mondo dalla Route 66 alla Panamericana, alla Via della Seta… Ma fare un itinerario del genere rimanendo nel nostro Belpaese è un’esperienza davvero irripetibile. Quale altro posto al mondo se non l’Italia può vantare una così ampia varietà di stimoli culturali, storici, etnici, enogastronomici e paesaggistici? Davvero nessuno… Altri Paesi nei quali c’è qualcosa da vedere bisogna guidare per giorni per passare da un punto di interesse ad un altro. In Italia si trovano location inesplorate ogni 20 chilometri. Ogni angolo testimonia un grande passato, una storia millenaria.

Roma – Villa dei Quintili, al quinto miglio dell’Appia Antica

Da tempo sognavo di fare un grande viaggio tutto italiano, e quest’anno finalmente ne ho avuto l’occasione ad agosto: ben dodici giorni per fare soli  650 chilometri percorrendo tutto il tracciato dell’Antica Via Appia da Roma a Brindisi. Li ho percorsi lentamente, apprezzando ogni pietra miliare che mi ricordava quanto Roma si allontanasse pian piano dietro di me. Un lungo lavoro di ricerca e organizzazione mi hanno portato a disegnare questo itinerario interessantissimo nella nostra storia italiana.

La via Appia, tra le strade Consolari romane, da sempre è stata la più importante arteria di comunicazione, tanto da essere nominata come la Regina Viarum. Molto più di un semplice collegamento tra luoghi; l’Appia stessa è un luogo dotato di una identità, di una storia autonoma che le ha permesso di sopravvivere per 2000 anni e mantenere il suo fascino e la sua funzione. L’Appia è stata la meta stessa del mio viaggio.

Itri (LT) – Il più lungo tratto di Appia Antica ancora visibile. Oggi è un Parco Regionale di 3,5 km da percorrere a piedi o in mountanin bike

Non è un caso che lungo questa strada siano passati papi, eserciti, merci e bestiame. Ma non solo: è stata il luogo in cui sono transitate culture, lingue e popolazioni ciascuna delle quali ha influenzato profondamente il tracciato lasciando i segni evidenti del suo passaggio e rendendolo un mix concentrato di storia. Infatti, una volta arrivati a Brindisi, attraversando il Mediterraneo sia arrivava in Grecia e poi da lì il viaggio continuava verso oriente, fino in Cina seguendo la Via della Seta…

Lungo l’Appia sono nate e hanno prosperato città e paesi di straordinaria bellezza e oggi divenuti Patrimoni UNESCO: Roma, Caserta, Benevento, Matera sono le più famose, ma poi ci sono Melfi, Terracina, Santa Maria Capua Vetere, Gravina in Puglia, Venosa. Meno note ma non meno belle e fascinose…

Pensando a tutto questo, mi stuzzicava molto l’idea di fare un viaggio per riunire tutti questi punti legati tra loro da una Storia comune e non solo da una strada che li unisce semplicemente.

Minturno (LT) – Antica Minturnae

Il Viaggio non è una vacanza, ma è un percorso mentale, uno stato emotivo con il quale ci apprestiamo ad aprire i nostri confini mentali e cognitivi per arricchirci di esperienza e di conoscenza. Percorrere una strada storica è uno dei modi migliori per ottenere tutto questo: mentre viaggiamo non percorriamo chilometri, ma ordiniamo le nostre idee, allarghiamo la nostra visione del mondo.

L’Appia mi ha permesso di fare tutto questo, di fare un vero Viaggio in Italia, non per scoprire culture lontane, ma per ri-trovare le mie origini, ciò che è scritto nel mio DNA. Un viaggio interiore.

Il percorso tra Roma e Brindisi evidenziato sul Lightroom con le foto scattate lungo il percorso

Prepararsi a partire

Un viaggio come questo richiede una lunga e accurata documentazione prima di fare i bagagli. La prima idea è stata quella di fare tutto il tracciato a piedi o in mountain bike, ma ho poi desistito perchè il mio scopo principale era andare a documentare il percorso con la fotocamera e ho preferito l’auto per gestire meglio gli spostamenti e avere più tempo per fotografare.

Ci sono in giro tantissime pubblicazioni, libri, guide che illustrano le varie tappe da cui prendere spunto e ispirazione, io ho trovato più utile studiare le mappe che adoro leggere e osservare, imparare a memoria prima di un viaggio. Le mappe on line e quelle cartacee più qualche sito ufficiale che riporta dettagliatamente il percorso, mi sono serviti per non lasciare nulla al caso. Ho usato anche alcune App fotografiche per pianificare i dettagli sugli orari del sole di cui avevo bisogno per scattare le mie foto con le condizioni di luce migliori.

Le tappe erano pianificate, ma gli Alberghi non li avevo prenotati, quando parto mi piace scoprire sul posto questi dettagli. Volevo che fosse il viaggio di un viandante, di un Viaggiatore che sa succhiare il piacere dell’avventura, che sa osservare il mondo che lo circonda e sa scegliere il miglior posto dove mangiare non dalle relazioni trovate on line, ma dai profumi che sento di giorno in giorno per strada. 

Santa Maria Capua Vetere (CE) – rovine dell’Anfiteatro Romano

Quando sono in viaggio per me l’odore di una strada vale più delle parole spese per descriverla, lo sguardo su un orizzonte vale più delle foto fatte per raccontarlo, e in Italia le emozioni si susseguono ravvicinatissime, una dopo l’altra. Il mio lavoro prima di partire è stato raggruppare i miei sogni, riunire e mettere in fila tutte le emozioni che mi aspettavo di trovare tra Roma e Brindisi. Ho cercato nel mio immaginario tutto ciò che avevo sentito dire su quel tratto di mondo. Ho fatto un vero e proprio brain storming per segnare sul percorso tutto ciò che avrei voluto vivere e sperimentare.

Nella mia lista avevo previsto anche la gastronomia legata ai luoghi: impossibile parlare di Roma senza pensare alla Carbonara. Inutile andare a Caserta senza assaggiare la mozzarella o la pizza e passare per Matera senza prevedere un piatto con i peperoni cruschi. Superficiale transitare in Puglia senza provare il piacere del pane cotto a legna…

Minturno (LT) – Antica Minturnae. i mosaici delle terme ancora perfettamente conservati

La cosa più difficile da organizzare è stata la scelta dei luoghi:  pur sapendo che avrei fatto tutto il tracciato dovevo comunque escludere qualcosa e, vista la quantità enorme di siti, la scelta è stata impegnativa.

Ad esempio, l’attuale SS7 via Appia, NON è, se non in piccoli tratti, la via Appia Antica. Molto spesso infatti le due strade corrono parallele ma su percorsi diversi magari distanti qualche chilometro.

Caserta (CE) – il Presepio di Corte nella Reggia, opera di Luigi Gabriele

Ho cercato metro per metro i tracciati originali, spesso la vecchia Regina Viarum ha perso la sua importanza diventando un tratturo di campagna percorso solo da greggi e pastori. Una ricerca impegnativa però interessantissima e divertente da fare. Erano proprio questi i tratti che di più mi è piaciuto cercare e poi ritrovare.

Ho segnato sulla mappa ogni singola location che volevo raggiungere per fotografarla con lo stesso entusiasmo di chi disegna il luogo in cui ha nascosto il proprio tesoro.

Questo perchè il viaggio è una metafora di vita, e nella vita come nel viaggio non c’è nulla di più bello che decidere dove andare e arrivarci lentamente godendosi non solo la destinazione, quanto la strada fatta per arrivarci.

Melfi (PT) – Panorama

Il Viaggio

Finalmente si parte.

Eravamo in due, io e Simona, la mia compagna di vita e di strada. Non mi piace partire da solo, preferisco avere un buon compagno anche se poi quando siamo in giro viviamo esperienze percettive parallele ma non uguali pur facendo le stesse cose nello stesso momento. In viaggio è bello trovare i propri spazi di indipendenza, fare dei tratti di strada da soli per poi raccontarseli una volta arrivati a destinazione la sera davanti ad una birra ghiacciata e con le foto scaricate nel computer.

Pochi bagagli, nessuna prenotazione. Era l’estate indimenticabile del 2020, subito dopo il primo lungo lockdown imposto dal covid. Siamo partiti per la prima volta nella nostra vita mettendo le mascherine tra le cose necessarie: con quella ritrovata voglia di viaggiare unita alla nuova paura di contagiarsi tra la gente che avremmo incontrato. Non si può viaggiare con la diffidenza, ma la prudenza è sempre necessaria.

La cosa più bella di questo viaggio è stato il goderselo a partire da Roma, la città in cui vivo e che non finisce mai di stupirmi. Roma è parte integrante di questo itinerario fatto di storia e cultura, di paesaggio e gastronomia. Siamo arrivati fino a Brindisi godendoci ogni passo con lentezza e con consapevolezza.

Venosa (PT) – la Chiesa dell’Incompiuta

In 650 chilometri si incrociano testimonianze dei Romani, degli Svevi, dei Normanni e dei Longobardi ma anche dei Sanniti e dei Borbone… La storia si mescola lungo questa strada percorsa da Papi e Cardinali per arrivare fino a Melfi per fare 5 concili in questa piccola cittadina fortificata in provincia di Potenza tutta da scoprire. Osservando le città lungo la strada si sentono palesemente le influenze di tutto questo…

L’Appia attraversa le grandi Pianure Pontine e il Tavoliere delle Puglie e valica gli Appennini passando in paesaggi modificati da migliaia di pale eoliche che producono energia pulita rispettando la natura. Campi coltivati e pascoli enormi si susseguono e si alternano alle grandi grandi aziende che sorgono in prossimità della strada e movimentano le loro merci lungo di essa in un percorso che non annoia mai. La varietà di ambienti è proprio il grande valore aggiunto di questo Viaggio.

Matera – Panorama della città vista da San Pietro Barisano

La strada unisce due mari e passa dai tramonti che si vedono sul Tirreno (nel tratto fra Terracina e Formia) fino alle albe da godere sull’Adriatico a Brindisi dove le colonne Romane sul porto indicano la fine della strada. Vedere un tramonto sull’Adriatico (rimanendo in Italia) è infatti possibile solo da Trieste.

E’ bello attraversare 4 Regioni e ad ogni sosta, in pochi chilometri sentire i dialetti sempre diversi ogni volta che parli con qualcuno anche solo per ordinare un caffè… Il viaggio è anche questo: imparare ad ascoltare ciò che ci circonda, parlare con la gente, sentire il calore genuino dell’accoglienza meridionale.

L’Appia Antica mi resterà nel cuore. Uno straordinario Viaggio da fare a casa nostra.

BUON VIAGGIO A TUTTI

Roberto Gabriele

Leggilo su Acqua & Sapone:

acqua & saponeL’Articolo è pubblicato anche sul mensile Acqua & Sapone nel numero di gennaio 2021: https://www.ioacquaesapone.it/leggi/?n=asgennaio2021#102

Brindisi – le Colonne Romane in cima alla scalinata (di una ne resta solo un piccolo troncone) segnano il punto di arrivo della via Appia dopo 650 chilometri da Porta san Sebastiano a Roma

Il Mugello: ritorno al passato

Quasi un ritorno al passato questa vacanza al Mugello.

L’antica e grande casa di pietra ci accoglie nelle stanze bianche di calce, arredate con mobili funzionali di semplice fattura.

La casa. Foto: © Ornella Massa

Cani festosi salutano il nostro arrivo con effusioni contenute.

Isa, uno dei cani del Podere Giuvigiana. Foto: © Ornella Massa

Abbiamo conosciuto a Razzuolo Margherita e Andrea, i nostri ospiti.  Con i loro veicoli a quattro ruote motrici ci hanno prelevato al parcheggio e condotto rapidamente al Podere Giuvigiana per la stretta ripida strada bianca.

Al podere incontriamo Duccio che ci accompagna a vedere l’orto sinergico che produce la verdura utilizzata per i pranzi, il frutteto che ha bisogno di essere potato e il bosco di pini Douglas che circonda la casa e che verrà diradato per fare spazio ad altre colture.

Prodotti dell’orto. Foto: © Ornella Massa

Ci parlano dei problemi che quotidianamente devono affrontare per rendere casa e podere economicamente autonomi e dei loro sogni di sviluppo della proprietà, in accordo al progetto iniziale.  Il racconto sarà da loro continuato nei giorni seguenti e darà modo a noi di comprendere la passione di questi ragazzi per la natura e per la vita di campagna ed il loro profondo desiderio di condividere la loro esperienza con quanta più gente possibile.

Ci fanno conoscere i loro giovani ospiti-lavoratori: sono ragazzi simpatici , provenienti sia dall’Italia sia dall’estero, che li aiutano nelle diverse attività in cambio di vitto e alloggio. Dormono in tende in una piccola radura del bosco.

Lavori in casa e riposi in tenda. Foto: © Ornella Massa

Ceniamo nella grande sala da pranzo annessa alla cucina. Intorno al lungo tavolo si snocciolano storie che continuano nella sera, seduti sulle panche di legno, sotto il nero cielo punteggiato di stelle.

La vita nella fattoria:

L’indomani la giornata inizia con la mungitura delle caprette:  un evento normale nelle campagne, ma noi vi assistiamo come in un film!

Mungitura delle capre al mattino. Foto: © Ornella Massa

Margherita, che è guida naturalistica, ci accompagna alla scoperta della linea ferroviaria faentina e di alcune vecchie strutture di servizio ormai dismesse. La passeggiata nei boschi dell’Appennino è piacevole di per sè, ma è resa ancora più interessante dal potersi avvicinare a edifici abbandonati in cui ancora risuonano le voci di coloro che qui vissero e lavorarono.

Il sentiero che porta alla stazione abbandonata di Fornello e l’interno delle case degli operai che costruirono la ferrovia. Foto: © Ornella Massa

Il giorno successivo, grazie a Margherita e Andrea, conosciamo Andrea Gatti, presidente dell’organizzazione ONLUS Gotica Toscana. Con lui saliamo sul Monte Altuzzo, il luogo dove, durante la seconda guerra mondiale, gli Alleati riuscirono a sfondare la linea difensiva tedesca in Italia per riversarsi poi nella pianura padana. Qui volontari stanno lavorando alla ricerca e restauro di postazioni militari. Le parole del presidente ci affascinano e ci ricordano eventi tragici della nostra storia di cui tutti abbiamo sentito, ahimè, parlare. L’occasione ci fa riflettere sull’importanza della pace.

Boscaioli lungo la Linea Gotica. Foto: © Ornella Massa

L’ultimo giorno di permanenza i nostri ospiti ci accompagnano in un luogo di frescura, il torrente Rovigo, dove si susseguono pozze di acqua  con cascatelle scintillanti che fotografiamo sperimentando l’uso dei tempi lunghi.

Cascatelle del torrente Rovigo. Foto: © Ornella Massa

Speriamo che le foto scattate in questi giorni possano almeno in piccola parte emozionarci come le ore vissute in questo podere che Margherita, Andrea e Duccio  stanno facendo rivivere e ci offrono con simpatia e generosità.

Contatta l’Autore:

Ornella Massa: https://www.facebook.com/ornella.massa.372

Andrea e Margherita in un raro momento di riposo. “Accetti la Sfida?”. Foto © Ornella Massa.

 

Domon Ken a Roma all’Ara Pacis

Alzi la mano chi di Voi ha sentito parlare di Domon Ken! Almeno sentito nominare? Almeno visto una sua foto senza sapere che lui fosse l’autore??? Nessuno??? Beh… Confesso che anche io fino alla scorsa settimana non sapevo di lui assolutamente nulla.

A Roma invece, da qualche giorno si vedoxno le sue foto nelle locandine che pubblicizzano una sua mostra all’Ara Pacis. Una mostra da vedere entro il 28 agosto, c’è ancora tanto tempo, ma visto il periodo vacanziero non tutti riusciranno ad organizzarsi per vederla, e allora ho deciso di parlarvene io così se non siete di Roma potete comunque imparare qualcosa di nuovo…

Domon Ken è il Maestro del Realismo fotografico giapponese. Detto in altri termini è padre storico giapponese per il Reportage e la Street Photography e ha un intero museo a lui dedicato nella sua città natale, Sakata, in riva ad un lago che contiene tutto il suo archivio. E poi, se leggi qui sotto tutta la sua storia, ti accorgerai che è stato un vero EROE dell’arte fotografica per come l’ha affrontata, portata avanti e approfondita ogni giorno della sua vita.

Ma perché interessarci a Domon Ken se in Italia non lo conosce praticamente nessuno? Perché è bravo, perché la sua mostra all’Ara Pacis è davvero bella e ripercorre mezzo secolo di storia del ‘900 giapponese.

"Bambini che fanno roteare gli ombrelli", 1937 circa, dalla serie "Bambini (Kodomotachi)" Ogōchimura 535 x 748 mm. (Ken Domon Museum of Photography)
“Bambini che fanno roteare gli ombrelli”, 1937 circa, dalla serie “Bambini (Kodomotachi)”
Ogōchimura
535 x 748 mm.
(Ken Domon Museum of Photography)

Fondamentale per capire l’importanza di questo personaggio è leggere la tabella che c’è proprio all’entrata con la cronistoria della sua vita. Questa ci fa capire anche moltissimo del suo carattere. Nasce nel 1909 e inizia la sua carriera artistica con la pittura, avrà 7 figli, ma la cosa sconvolgente sono le 3 emorragie celebrali che lo porteranno a delle battute di arresto dalle quali è uscito sempre più malconcio, ma mantenendo sempre la sua voglia di fotografare e osservare come sia cambiato il suo modo di lavorare in seguito alla malattia che lo ha messo su una sedia a rotelle. Leggi sotto come è andata, perché è davvero interessante…

Domon Ken Roma Ara pacis soldati

Gli esordi furono con la fotografia istituzionale: foto di personaggi potenti del mondo della politica giapponese, per lui ritratti di famiglia e rasserenanti immagini di regime che ritraevano la prosperità del Paese alla vigilia della seconda guerra mondiale, la bellezza delle infermiere della Croce Rossa e le esercitazioni di queste e dei soldati con corpi scultorei che in massa si preparavano ordinatamente ai combattimenti, le strade affollate per lo shopping, i mezzi pubblici funzionanti. I punti di vista che enfatizzano le geometrie, le moltitudini delle masse, l’ordine dei pattern e l’abbondanza di figuranti ricordano molto da vicino l’opera di Leni Riefenstahl, la Fotografa del Nazismo che raccontava quello che nello stesso periodo voleva esprimere la Germania. Colleghi di stile, immagini uguali, due Paesi in guerra tra loro. Questo aspetto fa un po’ riflettere….

Domon Ken Roma 1

Alla vigilia della guerra Domon Ken si staccò pian piano da quel tipo di immagini patinate che non raccontavano la verità reale che lui aveva davanti al suo obiettivo e decise di allontanarsi da questo genere per avvicinarsi al reportage, ricevendo i primi arresti da parte di chi fino a quel momento si era servito di lui. Ma questo è normale che accada, non è giusto, ma normale. Iniziò in questo modo il suo Realismo fotografico, quello che come dicevo all’inizio noi oggi chiamiamo Reportage. E fu così che Domon Ken iniziò una vera e propria rivoluzione stilistica cambiando radicalmente il suo punto di vista e concentrandosi sui poveri, sugli ultimi, invece che sul regime e i suoi splendori. A questo periodo appartengono le immagini dei pescatori e delle pescatrici, quelle dei saltimbanchi e quelle degli antichi mestieri.

"Hitsuji (Pecora), dai dodici guardiani (jūnishinshō) del Murōji", 1941 - 1943 Murōji, Nara 535 x 748 mm. (Ken Domon Museum of Photography)

Iniziò così a cambiare stile approdando ad un genere di fotografia più tecnica, più riflessiva, passò dal pratico formato Leica 35 mm al Banco Ottico che richiedeva ovviamente tempi di allestimento set decisamente più lunghi, attrezzature più ingombranti, l’uso del cavalletto e tempi di scatto lunghissimi che richiedevano una non semplice complicità e partecipazione da parte dei suoi soggetti. Infatti fu questo il periodo in cui iniziò a fotografare il Bunraku, ossia il Teatro delle Marionette. I risultati sono delle immagini di altissima qualità ottenute in luce ambiente praticamente prossima allo zero ma che riportano l’occhio di noi osservatori contemporanei a notare il senso estetico modernissimo che aveva Domon Ken già 80 anni fa….

Sempre parlando di Realismo Fotografico, possiamo fare un altro parallelo di sicuro con il nostro cinema del Neorealismo che ci riporta a quegli stessi anni in cui evidentemente in tutto il mondo c’era bisogno di dire altro, di esprimere e raccontare la gente comune, quello che succedeva nelle strade, fu un po’ da questo che nacque la Street Photography. Domon Ken iniziò a raccontare la strada, lo fece in particolare modo concentrandosi sui bambini, sulle loro abitudini, i loro giochi, i loro sorrisi e la loro vita libera e fondamentalmente felice con poco. La guerra era già arrivata, ma le sue immagini raccontavano, con grande eleganza e discrezione tipicamente orientale i volti di chi nonostante tutto ha ancora una speranza.

Domon Ken Roma Ara pacis 2

Nel 1957 ormai a 38 anni di età era un Reporter a tutti gli effetti, i suoi esorti istituzionali non gli appartenevano più e da Giapponese sentì la necessitá di raccontare a 13 anni di distanza la più grande tragedia della storia che mai abbia colpito il suo paese: la bomba atomica esplosa ad Hiroshima. E questa credo che sia la parte più intensa di tutta la sua produzione. Domon Ken ha realizzato ad Hiroshima circa 7000 scatti nel corso di diversi suoi viaggi tra le rovine e tra i sopravvissuti alla tragedia, qui nella mostra ne vediamo una ventina.

"Paziente in ospedale", 1957, dalla serie "Hiroshima" 457 x 560 mm. (Ken Domon Museum of Photography)
“Paziente in ospedale”, “Hiroshima”
1957
(Ken Domon Museum of Photography)

La cosa che sconvolge l’osservatore è il fatto che anche in questo caso, l’Autore non ci racconta la tragedia con il sangue, con i morti, con la distruzione. Riesce sempre ad avere uno stile pulito, mai falso, ma riesce a parlarci della speranuza che pian piano la gente ricominciava ad avere dopo la tragedia. Ci parla di ferite ben visibili ma rimarginate, ci parla degli orrori e delle ustioni ma anche delle ricostruzioni in chirurgia plastica, ci parla di un padre sopravvissuto e sfigurato ma felice e sorridente che tiene in braccio suo figlio nato sano. Hiroshima è quindi la serie della speranza, ma subito dopo sarebbe arrivata la malattia dalla quale lui stesso uscì grazie alla sua visione positiva del mondo.

"La morte di Keiji", 1957, dalla serie "Hiroshima" 457 x 560 mm. (Ken Domon Museum of Photography)
“La morte di Keiji”, 1957, dalla serie “Hiroshima”
457 x 560 mm.
(Ken Domon Museum of Photography)

imageArrivò la prima emorragia celebrale, arrivò il primo colpo di arresto della sua carriera fotografica, ma non smise di fotografare e andò avanti continuando a scattare le sue foto nonostante tutto. Fu questo un lungo periodo di 15 anni nei quali andò a realizzare i ritratti dei suoi amici, altri artisti e intellettuali della scena giapponese. La selezione dei soggetti andò a cascata: lasció un pennarello su una porta dentro casa e gli amici che andavano a trovarlo gli scrivevano man mano una lista sempre più lunga di altre persone da aggiungere al suo lavoro.

In seguito alla seconda emorragia celebrale finì sulla sedia a rotelle ma non perse la sua voglia nè la forza di fotografare il suo Giappone. Continuó quindi il suo lavoro ma cambiando radicalmente le modalità di eseguirlo, i soggetti, la tecnica, lo stile. Per ovvi motivi logistici legati alla sua condizione di semi-infermità, riprese a scattare con il suo banco ottico (nella vita ogni capacità acquisita non è mai fine a sè stessa) e il cavalletto, facendosi montare il tutto dai suoi Assistenti ad una altezza compatibile con il suo punto di vista ormai ribassato rispetto alla media.

imageL’ultima parte della sua produzione fotografica è stata una ricerca sui luoghi sacri giapponesi, sui giardini tradizionali, sui dettagli di statue sacre. Continuò a scattare con nuove modalità, un nuovo stile, stavolta molto più rallentato, universale. In quest’ultimo periodo le sue immagini hanno perso il dinamismo coinvolgente del reportage e si sono evolute nello still life e nella fotografia di architettura che richiedono pazienza, studio, (sono pochi i Fotografi che abbiano la voglia di ristudiare il proprio stile).

Dopo la terza emorragia celebrare è finito in coma e ci è rimasto praticamente per gli ultimi 12 anni della sua vita senza mai riprendersi. Da quel momento la natura ha avuto il sopravvento sulla sua voglia di fotografare, sulla sua possibilità di farlo.

Questa è la storia di un fotografo-eroe, di una persona che non ha mai smesso di evolversi, di chi ha saputo crescere, cambiare genere, ricominciare, rimettersi in gioco. Battuto ma non vinto, ha sempre avuto la forza d’animo di trovare nuovi linguaggi espressivi che lo facessero esprimere con la fotografia.

testi di Roberto Gabriele

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Gianni Berengo Gardin a Roma

Vera fotografia

Roma: Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale 194, fino al 28 agosto  2016 c’è la mostra fotografica di Gianni Berengo Gardin. A cura di Contrasto e Fondazione FORMA per la Fotografia.

Vera Fotografia, è il timbro verde che l’Autore, così come moltissimi della sua generazione (classe 1930) erano soliti porre sul retro delle stampe da negativo per distinguerle da quelle stampate tipograficamente che erano di minor pregio e per certificarne l’autenticità di immagine ottenuta senza manipolazioni di camera oscura, nè, tantomeno con postproduzione digitale. In realtà, come sappiamo, ogni foto nel momento stesso in cui viene sviluppata (con metodi chimici o digitali) è già stata in qualche modo alterata, resa atta alla stampa e i suoi toni sono già stati modificati. Senza dubbio anche il passaggio da una realtà a colori ad una immagine in bianco e nero è già una prima alterazione (e non trascurabile nè reversibile) della realtà stessa.

Berengo Gardin Catalogo
Catalogo della Mostra di Roma

Ho visitato la mostra con un gruppo di Allievi di Viaggio Fotografico e la prima impressione che ne ho avuto è stata quella di trovarmi non solo davanti ad un Grande Maestro, ma davanti ad uno che era tale per aver scritto, ancora VIVENTE, una delle più belle pagine della Storia della Fotografia. E la differenza tra essere un bravo Fotografo e scrivere la storia è enorme. Di bravissimi Fotografi, professionisti o meno ce ne sono tanti al mondo, ma solo pochissimi sanno innovare il linguaggio fotografico ed espressivo, dettare le nuove regole alle quali poi moltissimi si ispireranno. E, ovviamente, Berengo Gardin è senz’altro uno di loro e il motivo lo capiamo proprio vedendo la sua mostra.

La prima impressione che ho avuto entrando nella mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma è quella di uno spazio ben ordinato, con sale tematiche e divise in ordine cronologico. Questo dettaglio che sembra normale, addirittura scontato, è invece quello che dimostra quanto sia longeva l’attività artistica e giornalistica di Gianni Berengo Gardin,un fotografo ancora vivente che ha esposto in centinaia di mostre in tutto il mondo e scritto oltre 250 libri fotografici. Un portento. Una vera forza della natura che produce Fotografie ininterrottamente da oltre 60 anni. E il senso della storia si sente fortissimo in questa mostra. Mi sia concesso un paragone, ma io credo che Berengo Gardin abbia raccontato un pezzo di Storia Italiana oltre che di Storia della Fotografia così come negli stessi anni fece nel cinema Alberto Sordi, raccontando gli Italiani e il loro costume che cambia. Berengo Gardin racconta una Italia senza tempo che sembra appartenerci ancora. Le sue immagini, raccontano così bene la nostra Italia che ci riconosciamo in esse, nei luoghi e nelle persone, come se facessero parte del nostro quotidiano.

gli Zingari uno dei temi a lui più cari
gli Zingari uno dei temi a lui più cari

Un innovatore: oggi tanto si parla di Street Photography. Probabilmente uno dei primi iniziatori della Fotografia di Strada fu proprio Gianni Berengo Gardin che ha sempre fatto della spontaneità del momento il suo cavallo di battaglia. Della semplicità di linee e forme la sua arma vincente, della innocenza delle persone ritratte il suo obiettivo finale.

Il Bianco e nero mai rinnegato per un modernistico o stilistico passaggio alla fotografia a colori uniforma i toni di tutta la mostra che sembra realizzata con immagini scattate in pochi mesi. In realtà di tempo tra le immagini ne è passato tanto, ciò che invece è rimasto uguale è lo stile che non è mai cambiato, ha sempre mantenuto una pulizia formale e un grande silenzio. Le foto di Berengo Gardin non hanno parole, non hanno rumori, le trovo ovattate, icone fortemente espressive ma che non esprimono rumori. Un pò come si esprime un mimo sul suo palco, così Berengo Gardin riesce a farci sentire la musica senza ascoltarla e anche le sue foto di fabbriche vengono percepite come spazi silenziosi.

Scanno (AQ): la gente guarda se stessa fuori casa
Scanno (AQ): la gente guarda se stessa fuori casa

Immagini che raccontano. Le sue immagini appaiono da subito come pensate, efficaci (è sua la famosa frase che non esistono belle fotografie ma solo buone fotografie) dirette, costruite ma mai artefatte. Se fa un ritratto in strada non sta lì a curare la luce o i set modificandoli, scatta con ciò di cui dispone, non cambia neanche obiettivo, preferendo scattare tutto con un 35 mm… Lui non crea, racconta. Ma i suoi racconti hanno la potenza delle parole di un grande poeta. Racconta come lui stesso ama dire con le immagini, come un giornalista fa con le parole.  Ed è lui stesso a definirsi non più come un artista ma come un giornalista. Ma come è facile intuire, di arte nelle sue immagini ce n’è tanta.

Ogni anno viene data un’enfasi mondiale ai vincitori del prestigioso Premio di Fotogiornalismo World Press Photo, e viene immediatamente da pensare a quanto le immagini classiche e intramontabili di Berengo Gardin siano diverse da queste, pur volendo entrambe raccontare il mondo per come lo ha osservato il Fotografo. Berengo Gardin sa rendere straordinaria la normalità quotidiana. Nelle immagini del WPP assistiamo invece alla spettacolarizzazione della fotografia, oggi le immagini di fotogiornalismo non raccontano: urlano. E se le immagini non urlano nessuno le ascolta. Berengo Gardin ci dimostra che è sufficiente alzarsi di 1-2 metri al di sopra della scena per avere un punto di vista completamente nuovo, diverso, insolito ma ancora tanto rasserenante, dall’altra parte le ultime due edizioni del World Presso Photo sono letteralmente invase di immagini realizzate con costosissimi droni di ultima generazione. Il risultato che si ottiene nel primo caso è il sapersi meravigliare della semplicità che era sotto i nostri occhi e che non avremmo saputo cogliere, nel secondo caso invece ci accorgiamo che ci viene mostrato un mondo distante, diverso, sconosciuto che non ci appartiene perchè tutto viene spettacolarizzato, anche il dolore.

Berengo Gardin 5
Venezia: il vaporino.

Ovviamente le fotografie sono tutte tecnicamente perfette, ben composte. La cosa che mi è piaciuta di più è proprio il linguaggio moderno e senza tempo delle foto di Berengo Gardin che riesce ad esprimersi con eleganza, efficacia e tanta chiarezza, sa farsi amare senza imporsi. Usa inquadrature classiche, con il soggetto al centro o sfruttando la regola dei terzi. Conosce bene l’importanza delle sequenze di piani e delle sfocature, sa usare le prospettive per comporre e condurre lo sguardo verso il soggetto principale, sa bene come utilizzare le linee di forza all’interno dell’inquadratura per creare enfasi sul soggetto, conosce perfettamente il valore dell’istante decisivo di bressoniana memoria. Leggendo queste ultime considerazioni ci si rende conto che la straordinarietà di Berengo Gardin si trova nel saper rendere eccellenti e meravigliose le cose che dovrebbe sapere un Allievo alla fine di un Corso Base di Fotografia!!!! E questo non sminuisce affatto l’importanza e la bravura del nostro Autore che al contrario riesce ad essere inarrivabile proprio su un piano al quale tutti potrebbero aspirare di arrivare essendo fatto con pochi mezzi e poca tecnica ma che necessita di una esperienza e una sensibilità unica e inimitabile.

i Manicomi, uno dei temi che ha seguito più a lungo
i Manicomi, uno dei temi che ha seguito più a lungo

Infine è lo stesso Gianni Berengo Gardin a raccontarci la semplicità intenzionale del suo lavoro. A raccontarci come si avvicina ad un soggetto, studiandolo prima da lontano, poi avvicinandosi pian piano ad esso, descrivendolo via via sempre più da vicino, girandogli intorno come in un rituale di avvicinamento amoroso. Mi ricorda la storia del “Piccolo Principe” che voleva creare dei legami con la Volpe la quale gli chiedeva di avvicinarsi a lei pian piano ogni giorno un pò di più e poi di sedersi senza fare nulla, affinchè lei riuscisse a conoscerlo e a fidarsi di lui per poi diventare amici. E’ proprio quello che fa Berengo Gardin con le sue immagini e i suoi soggetti.

La mostra termina con le immagini di forte denuncia di un recente lavoro sulle “Grandi Navi da Crociera” che entrano nella laguna di Venezia apparendo con la stessa grazia di un elefante in un negozio di cristalleria. Le navi appaiono gigantesche e sproporzionate all’ambiente in cui si muovono. Appaiono offensive, infinitamente più grandi della città in cui navigano. Le sentiamo minacciose per la loro forza e violenza, per la loro modernità che troppo si contrappongono con la fragilità storica della Serenissima.

Roberto Gabriele
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[tbicon icon=’icon-mail’ size=’15px’ class=’awe’] robertogabrielefotografo@gmail.com

Berengo Gardin 10
per la serie sulle Grandi Navi da Crociera

Max Serradifalco

Domenica pomeriggio: siamo andati a vedere una delle nostre mostre fotografiche a Roma. L’abbiamo scoperta quasi per caso, in una galleria nuovissima inaugurata a fine 2015 dalle parti di Viale Marconi, vicino al celebre mercato di Portaportese.

La Galleria è enorme, si chiama Fondazione Exlcusiva, appena ristrutturata e ricavata in una ex fonderia con un pregevole intervento di recupero architettonico e funzionale. Un bellissimo spazio completamente imbiancato che propone con uno stile minimal (less is more) una mostra di immagini fotografiche di altissimo impatto visivo perchè colorate da Madre Natura. Le foto sono perfettamente illuminate da un sistema progettato e realizzato su misura da una ditta tedesca esattamente per questo spazio.

Fondazione Exclusiva

Dovevo descrivervi la scatola prima di potervi parlare del Contenuto, perchè come ogni buon contenuto ha bisogno di una scatola degna di contenerlo, che sappia vestirlo, impreziosirlo e valorizzarlo ma senza fare clamore primeggiando in una gara di bellezza tra contenuto e contenitore.

Max Serradifalco

Serradifalco1

E finalmente arriviamo alle bellissime immagini di Max Serradifalco, un Grafico prestato alla Fotografia. Un fotografo che per scattare non compra neanche la fotocamera ma preferisce scattare con quella non sua messa a disposizione dal satellite prendendo le sue foto dagli screeenshots di Google Earth; la sua modella preferita è la nostra terra vista dallo Spazio. Ancora più particolare l’atteggiamento di questo Fotografo/Grafico che non utilizza neanche Photoshop per modificare i suoi files se non per modificarne leggermente la nitidezza, operazione necessaria per poter stampare in alta risoluzione delle immagini che per forza di cose partono comunque ad una dimensione da monitor.

Max Serradifalco ritrattoCi accoglie Max nella sua mostra, come farebbe un bravo padrone di casa, è un personaggio mite ma molto portato a parlare del suo lavoro del quale è palesemente innamorato, lo fa con toni pacati e non autocelebrativi ma con la consapevolezza di chi sa il fatto suo.

Più volte premiato dal MIFA di Mosca ad una menzione d’onore agli International Photography Awards negli USA nel 2012, ha poi esposto dal Giffoni Festival al MIA fair di Milano fino ad una importantissima selezione come miglior Progetto sulla Piattaforma creativa Behance di Adobe.

Max, come un segugio, cerca le sue immagini scansionando ed esaminando il Pianeta Terra palmo per palmo fino a trovare in esso dei soggetti interessanti per renderli dei veri e propri quadri dipinti dalla natura e visibili solo dal cielo. Continui cambi di rapporti di ingrandimento, zoom in e out e poi spostarsi con il mouse alla ricerca di quadri già pronti che deve solo isolare dal contesto in cui si trovano.

Entrando un pò di più sul tecnico, alcune immagini hanno un lato reale che corrisponde a decine di chilometri, alcune a poche centinaia di metri sul terreno, e il suo lavoro di ingrandimento e riduzione è quello che farebbe qualsiasi altro fotografo con un obiettivo macro allontanandosi e avvicinandosi ai suoi soggetti.

Serradifalco5

Max Serradifalco oltre ad essere un Fotografo sui generis perchè scatta con fotocamere non sue, è anche un Viaggiatore originale poichè conosce tutto il mondo senza muoversi dal suo PC, vola nello spazio senza essere un astronauta e senza avere un’astronave, un esploratore che racconta luoghi che non conosce… Un pò come Jules Verne che scrisse di un Giro del Mondo in 80 giorni o di un viaggio dalla terra alla luna senza aver mai fatto nessuno dei due…. Non so se Max Serradifalco sia anche un pittore (intendo dire se sappia usare pennelli e colori), ho dimenticato di chiederglielo! Ma di sicuro Quelli che “vede” sono dei quadri che solo la geologia sa dipingere con tanta magnifica perfezione e lui diventa una sorta di Ambasciatore della Natura, un Agente Rappresentante del Pianeta, un Avvocato della Natura. Tutte rispettabilissime Professioni che hanno a che fare con cose non realizzate direttamente da loro. Non ho usato la “professione” di ladro, perchè lui non ruba nulla a nessuno, CERCA qualcosa per noi, questo non è rubare, è concedere agli altri il dono della bellezza.

Rangiroa atoll sud ovest

I suoi soggetti preferiti sono i deserti e le foci dei fiumi, i primi generano per lui interessantissimi patterns e veri e propri quadri decorati che a volte ricordano Jackson Pollock, altre rimandano a figure antropomorfe, altre ancora sono vere e proprie campiture di colore o incredibili disegni visibili solo dal cielo. La forma delle montagne con le loro ombre riportate, i detriti portati dai fiumi, isolotti che si formano in vari luoghi del mondo in quel confine sempre mutevole tra le zone di acqua e di terra… Le istantanee di Max Serradifalco sono davvero delle opere d’arte.

Serradifalco6

Il suo lavoro di FotoRicercatore si esprime principalmente in tre direzioni:

WEB LANDSCAPE PHOTOGRAPHY Foto/Quadri generati dal Paesaggio

EARTH PORTRAIT Paesaggi terrestri che assomigliano a figure e profili umani

E-ART-H Paesaggi terrestri che assomigliano a quadri famosi

Max Serradifalco Urlo_orig
L’Urlo di Munch rivisto da Max Serradifalco

Da Viaggiatore e Fotografo quale sono, mi trovo molto in empatia con questo giovane e performante Artista nel quale riconosco la mia grande passione per le mappe (da bambino il mio libro preferito era l’Atlante De Agostini, lo sapevo a memoria), per la fotografia in generale e per quel magnifico gioco che è Google Earth che sa farci sognare. Rimango incantato anche io per ore ad esplorare la nostra terra, la cosa che più mi piace, è atterrare dove voglio con questa astronave virtuale usando Street Wiew per sentirmi completamente immerso in una realtà diversa. La Fotografia non mi da la stessa sensazione che provo con Street Wiew… Capisco insomma il suo interesse per questa materia affascinante che è il nostro mondo.

Roberto Gabriele

E’ morto Fulvio Roiter

Ricordo Fulvio Roiter fin da quando ero un ragazzino: mio padre comprò un suo libro fotografico e me lo mostrò. In verità mio padre non è mai stato un appassionato di Fotografia in senso stretto, ma quel libro ben fatto, quelle foto suggestive su Venezia e il suo Carnevale attrassero la sua attenzione di uomo curioso e affamato di cultura in senso generale e lo comprò insieme a migliaia di altri libri di arte e letteratura che avevamo in casa.
E quel libro finito in casa mia insieme ad una piccola collezione di altri Grandi Fotografi furono un pò la mia iniziazione fotografica. Non pensavo da anni a questi fatti, eppure quel libro iniziò a farmi sognare ad occhi aperti. Iniziò a mostrarmi un modo di raccontare il mondo con le immagini invece che con le parole.
Fulvio RoiterErano i rampanti anni ’80 e io guardavo quelle foto di Venezia scattate durante il Carnevale alla fine degli Anni’70. Sono passati quasi 40 anni e quelle immagini ci portano ad una Venezia che non c’è più. La Venezia di Fulvio Roiter infatti è una Venezia ancora relativamente poco turistica.
Roiter Passeggiata alle ZattereNelle sue immagini ci sono vastissimi scorci della città quasi completamente deserta, oggi sarebbe impensabile per chiunque poter pensare di scattare foto di giorno con Piazza San Marco vuota e senza turisti.
Ricordo che quando guardavo le foto di Fulvio Roiter (allora non avevo alcuna competenza fotografica, le sfogliavo come un quindicenne curioso troppo grande per leggere Topolino e troppo giovane per studiare Fotografia) mi appariva in tutta la sua forza il detto: “Quanto è triste Venezia”. Vedendo quelle foto Venezia mi sembrava davvero tanto triste, la nebbia del mattino, in alcune persino la neve, l’acqua alta e i le onde nei canali.
Roiter UmbriaAppena ho saputo della sua morte, che è stata oggi 19 aprile 2016 all’età di 89 anni, sono andato a cercare il suo libro che avevo gelosamente conservato in tutti questi anni e puntualmente l’ho ritrovato dopo 4 traslochi esattamente dove doveva stare, insieme agli altri libri della stessa Collana dei Grandi Maestri dei Fratelli Fabbri Editori. Si trovava in ottima compagnia, a stretto tra le copertine di Tina Modotti e Jeanloup Sieff (in ordine alfabetico) e poco più in là della stessa serie c’erano David Hamilton, Cartier Bresson e altri illustri colleghi. Stranamente il nostro Roiter era l’unico con la copertina grigia invece che nera… “Serie Argento“….
Roiter Cartolina

Riceviamo da Donatella Bisutti un bel contributo, un racconto vissuto in prima persona di un viaggio fatto con Fulvio Roiter. Un pezzo di vita vera, il ritratto di un grande Fotografo

RICORDO DI FULVIO ROITER – UN VIAGGIO IN CAPPADOCIA

Ieri è morto a 89 anni un grande fotografo, Fulvio Roiter. Abitava da anni al Lido di Venezia ed era diventato famoso soprattutto per le foto che aveva dedicato a Venezia e al suo Carnevale. Ma in realtà per anni la sua grande passione era stata viaggiare e aveva percorso mezzo mondo ricavandone una serie di libri fotografici che si distinguevano per il rigore e l’originalità compositiva con cui trasformava il reportage in opera d’arte secondo uno stile del tutto personale. Roiter era in certo modo un “pittore della fotografia”.

Io l’avevo conosciuto tantissimi anni fa e da allora eravamo diventati amici, anche con la moglie belga. Io allora ero una ragazza molto giovane e, per circostanze familiari – mio padre aveva fondato a Istanbul una società per conto della Pirelli – abitavo con i miei in Turchia, un Paese che mi affascinava e a cui per questo mi sento ancora legata. Ma siccome volevo tornare in Italia e costruirmi una vita mia – mi ero appena laureata, in Belgio, sempre per via del lavoro all’estero di mio padre – e sognavo di diventare giornalista, scrissi di mia iniziativa il diario di un viaggio alla scoperta delle antiche colonie greche dell’Asia minore, principalmente Smirne ed Efeso. Allora non c’era in quella regione alcuna attività turistica e gli archeologi francesi e tedeschi stavano solo cominciando a disseppellire rovine che ridisegnavano quelle città facendole risorgere da un paesaggio deserto, da cui nei secoli il mare si era ritirato. Fu così che scoprii, tra parentesi, l’archeologia – che fino ad allora avevo associato al chiuso un po’ muffito dei musei – come un’eccitante avventura. Mandai questo articolo all’unica rivista che avevo allora a portata di mano, e cioè alla rivista Pirelli, una rivista insigne che per qualche tempo aveva avuto come direttore anche un grande poeta come Vittorio Sereni. Il direttore di allora che credo fosse Castellani, dopo aver precisato che non pubblicava l’articolo per via di mio padre ma perché gli era piaciuto – e questo mi riempì di orgoglio, e riempì mio padre di stupore – a riprova di questo fatto inviò sul campo Fulvio Roiter che allora era ovviamente un giovane fotografo . Lui arrivò con la moglie Louise detta Lu, che per combinazione era belga, Paese in cui io avevo vissuto per anni. Facemmo subito amicizia. Fulvio Roiter allora non era ancora famoso, ma chi se ne intendeva lo considerava già un grande fotografo. Lui e la moglie erano una giovane coppia povera, perché lui era molto selettivo: non voleva lavorare per giornali e settimanali come avrebbe potuto, ma solo per due riviste che secondo lui gli davano la garanzia di una qualità di stampa ottimale, la rivista Pirelli appunto e la storica rivista svizzera Du. Avendo pochi soldi alloggiarono in qualche sorta di ostello e ricordo che venivano a fare la doccia a casa nostra.

Insomma Fulvio arrivò in una tenuta un po’ hippy e subito disse: ok, ho letto l’articolo e vado a fare le foto in Asia minore, però tu devi scrivere un altro articolo sulla Cappadocia e insieme dobbiamo andare a Goreme. Goreme oggi è famosa per le sue chiese e abitazioni scavate nel tufo ed é una delle mete turistiche privilegiate in Turchia, sfondo per ambientazioni cinematografiche. Ma allora nessuno ne sentiva parlare. Io c’ero stata qualche tempo prima con un gruppo della cosiddetta colonia italiana locale, che comprendeva alcune persone di origine italiana che vivevano a Istanbul o ci erano venute per lavoro, come un simpaticissimo professore di matematica napoletano che insegnava al liceo italiano, liceo che esiste credo ancora oggi. Avevamo noleggiato uno scassatissimo pullman e avevamo affrontato un viaggio non da poco. Di turisti nemmeno l’ombra. Credo che fummo i primi ad arrivare a Goreme. Ricordo che ci facevano entrare nelle case e ci facevano sedere a un tavolo, ci portavano frutta, dolci e loro in piedi ci circondavano e ci guardavano mangiare.

Le donne ci toccavano i vestiti per vedere com’erano fatti , palpare la stoffa, e siccome allora andavano di moda in Italia delle sottogonne di una sorta di crinolina, ci sollevavano le gonne per guardare sotto e così anch’io ne approfittai e scoprii che i loro pantaloni “turchi” erano in realtà gonne cucite nel mezzo.

Tornando a Roiter, non era possibile dirgli di no, anche se era estate e c’erano più di quaranta gradi. A Istanbul era arrivato anche il mio fidanzato, poi diventato mio marito, e mio padre gli affidò la sua macchina con mille raccomandazioni. Così partimmo in quattro per un viaggio di mille chilometri che si rivelò una vera avventura. Un’avventura indimenticabile. Il viaggio procedeva a rilento, perché Fulvio ogni poco gridava a Roberto di fermarsi perché aveva visto qualcosa da fotografare e si buttava fuori dalla macchina con la sua Canon appesa al collo. Ma non era mai questione di un attimo, perché lui, proprio come un pittore, non accettava la realtà com’era, ma voleva crearla. Per esempio vedeva alcune donne che lavavano i panni in un torrente, però non formavano quella composizione che aveva in mente lui, e che si ispirava a un’idea grafica, in cui la natura e la presenza dell’uomo si accordavano in una forma che tendeva all’astrazione. Allora lui si metteva in attesa, e noi con lui, ma chiaramente con un interesse minore del suo. Tuttavia non c’era verso di smuoverlo, finché spontaneamente le figure del quadro non avessero assunto le posizioni e il ritmo giusto. Chiaro che non bisognava avere fretta. Finalmente scattava e potevamo ripartire.

A questo ritmo arrivammo all’ora del tramonto in vista di Goreme, dove sapevamo esistere da poco una piccola locanda. Ci stavamo inoltrando nel paesaggio lunare di Goreme, fra pareti e coni di tufo rosato perché illuminato dalla luce obliqua del tramonto, quando con un soprassalto una scena magica, a una curva, si presentò davanti ai nostri occhi: la Fuga in Egitto!

Su un asinello che procedeva lungo il bordo della strada, davanti a noi, c’era una donna vestita come la Madonna di azzurro, con il capo ricoperto di una stoffa bianca che le scendeva a guisa di velo lungo le spalle, l’asino era condotto dal marito che camminava a piedi tenendolo per la cavezza. Fermo! gridò immediatamente Fulvio e la nostra macchina si arrestò di botto, mentre lui come un pazzo si buttava sulla strada e cominciava a fotografare. Ma l’uomo, infastidito, subito aveva fatto cenno alla moglie di nascondere il viso e lei aveva girato il capo verso la parete di tufo , dandoci le spalle e stringendosi addosso il velo bianco, mentre l’uomo pungolava l’asino perché si affrettasse ad allontanarsi e intanto faceva segno a Fulvio di smettere, di andarsene, con aria va via più minacciosa. Fulvio!, lo chiamammo io e Lu, preoccupate. Ma lui niente. Non poteva perdersi una scena così. Tutto successe in un attimo: l’uomo aveva improvvisamente estratto una roncola e si stava gettando su Fulvio, in un secondo gli avrebbe forse staccato la testa. Lì ammirai la freddezza e la presenza di spirito di quello che allora era il mio fidanzato: poiché Fulvio e l ‘uomo si trovavano alle nostre spalle rispetto alla posizione della macchina ferma, lui innestò subitamente la retromarcia puntando con l’auto dritto contro l’uomo, che arretrò, e intanto passando accanto a Fulvio io e Lu lo afferravamo e lo trascinavamo dentro la macchina senza riguardo per la preziosa attrezzatura fotografica penzolante dal suo collo e sbatacchiata qua e là. Innesto della prima e via, mentre una pietra mancava di poco il lunotto posteriore dell’auto affidataci da mio padre con tante raccomandazioni .

Scendeva la sera, trovammo un luogo dove nasconderci e aspettare. Come entrare nel villaggio, ci chiedevamo, dove nel frattempo il vecchio doveva essere arrivato e aver dato l’allarme? Come saremmo stati accolti?

Decidemmo di aspettare il calare delle tenebre per raggiungere la locanda inosservati. E così andò. Eravamo in salvo. Ma l’indomani?

Anche qui ci venne in soccorso un’idea: chiedemmo al proprietario della locanda se poteva procurarci qualcuno del luogo che ci facesse da guida. E al mattino presto arrivò Mehmed , un ragazzo giovane, aitante e simpatico, che miracolosamente parlava anche inglese. Andammo a piedi all’interno del villaggio con lui, che coscienziosamente voleva illustrarci tutto quanto c’era da vedere. Davanti al nostro disinteresse per le sue spiegazioni, rimase perplesso e deluso, finché gli dicemmo la verità: in realtà quello di cui avevamo bisogno era una guardia dl corpo e anche qualcuno che persuadesse gli abitanti a farsi fotografare. Quando Mehmed ebbe capito, ritornò di buon umore e si divertì ad aiutarci: grazie ai suoi buoni uffici Fulvio poté fotografare tutti quanti. Mehmed salì in macchina con noi e cantava in turco delle ballate bellissime, ci eravamo affezionati a lui ed eravamo diventati amici. Con grande dolore apprendemmo pochi mesi dopo che era morto in un incidente stradale.

Donatella BisuttiRoiter VeniseFleuril Critico Michele Smargiassi su Repubblica.it pubblica su Fulvio Roiter un Articolo che puoi leggere cliccando qui.

Venerdì Santo in Provincia di Potenza

A Barile, (“Barilli” in arbëreshë), comune di circa 3.000 abitanti della provincia di Potenza, per il Venerdì Santo è tradizione che si ripetano i Misteri della Passione.

 

32.Lionetti_a_BarileLe origini di questa ricostruzione storica risalgono alla metà del 1600, momento in cui il clero stava cercando di adattare le usanze locali ai dettami della religione cattolica.

Attualmente è organizzata dal Comitato della Sacra Rappresentazione Via Crucis di Barile, composto da oltre 40 volontari.

Numerosi sono i personaggi in costume che compongono il corteo, aperto da tre centurioni a cavallo e da tre bambine vestite di bianco (le tre Marie).

Il personaggio più’ insolito e’ la Zingara, la più’ bella ragazza del paese, abito scintillante e ricoperta dei gioielli della gente più’ facoltosa di Barile.

E’ un chiaro richiamo alle origini albanesi dei paese.

22.Lionetti_a_Barile

La natura del corteo mostra un’evidente commistione di elementi sacri e profani, poiché i personaggi storici si mescolano a figure più tipicamente popolari dal forte contenuto simbolico.

Nella straordinaria rievocazione della passione di Cristo, motivo di grande significato è l’oro che copre i simboli e riveste i personaggi della sacra rappresentazione.

Sembra che si vogliano rappresentare statue piuttosto che figure in carne e ossa, o meglio le raffigurazioni ieratiche e quasi inespressive oltre che coperte di oro, proprie dell’arte bizantina.9.Lionetti_a_Barile

E’ l’oro, infatti, il motivo ricorrente della manifestazione: l’oro che copre le croci e gli abiti bianchi delle “tre Marie“, bimbe che simboleggiano purezza e innocenza, le braccia impastate della Veronica, impreziosisce le dita dei sacerdoti del Sinedrio; l’oro – infine- che intesse il vestito dell’Addolorata, identico a quello della statua che troneggia in ogni chiesa del Sud.

Ma, soprattutto, “veste” la zingara, personaggio singolare che, secondo la tradizione popolare, ha acquistato i chiodi per la crocifissione.Il corteo si chiude con la presenza delle statue del Cristo Morto e dell’Addolorata, preceduti dal Sacerdote che invita i fedeli alla preghiera ed alla meditazione dei misteri.

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World Press Photo 2015

La mostra allestita al Museo di Roma in Trastevere

World Press Photo

Il World Press Photo 2015

 

Finalmente si è ridotta la quantità di sangue e di morti esposti e vincitori delle passate Edizioni del World Press Photo!

 

Diciamolo, da appassionati di questo genere fotografico, da cultori del Reportage, da frequentatori di mostre e fedelissimi proprio di World Press Photo, possiamo dire che le ultime Edizioni di questo prestigiosissimo Premio Fotografico si erano caratterizzate per essere ogni anno delle lunghe carrellate di morti e di sangue, di esplosioni e di violenze. Fatte salve le foto sportive, per anni l’attenzione era concentrata sulla crudezza delle immagini.

 

L’Edizione 2015 invece si è contraddistinta a mio avviso per un deciso cambio di stile e di tecnica che è servito a smorzare i toni e a far vincere la bella fotografia.

WPP Darcy PadillaFoto: © Darcy Padilla

Come sappiamo la Fotografia, come qualsiasi altro linguaggio si evolve, qualcuno direbbe che segue le mode, ma io preferisco vederne l’evoluzione e il cambiamento e pensare che siano le mode a seguire i linguaggi visivi e non il contrario. Ricorderai quando negli anni ’70 a Roma si diceva “‘na piotta” per indicare 100 lire, o quando dopo il film di Carlo Verdone le parole più ricorrenti tra i giovani erano “un sacco bello” e “cioè”… Ecco…. Ora queste espressioni non hanno più alcuna rilevanza nel lessico quotidiano e da fenomeno di costume che erano all’epoca, un diciottenne di oggi non sa neanche a cosa si faccia riferimento. In fotografia è accaduta la stessa cosa. Anni fa si parlava di Analogico/Digitale per chi era a favore del vecchio o del nuovo. Ora nessuno più si pone il problema. Semplicemente sono rimaste alcune persone a volersi divertire a scattare in pellicola non più come preferenza, ma solo per piacere personale. Tutto si evolve.

Foto: © Anand VarmaFoto: © Anand Varma

GLI STRUMENTI:

 

Anche i linguaggi delle foto esposte e premiate al World Press Photo di quest’anno sono evoluti e influenzati dalla presenza di uno strumento di ripresa che fino allo scorso anno non era mai stato presente e del quale fino a 2 anni fa non si sentiva neanche parlare… Ora i costi di questi strumenti sono crollati, sono diventati oggetto di uso comune in pochi mesi e i lavori fatti con essi iniziano a diventare Fotografie d’Autore e non solo mezzi tecnici di ripresa. Si sta insomma evolvendo un vero e proprio nuovo stile fotografico assolutamente inimmaginabile e impensabile fino alla loro invenzione. Naturalmente sto parlando dei Droni!

Foto: © Tomas van Houtryve

Il Drone insomma quest’anno è sbarcato al World Press Photo 2015 dimostrando che nelle mani di un bravo fotografo questo strumento di ripresa diventa un potente mezzo espressivo e non solo un mero metodo di rilievo dall’alto. Ma la foto qui esposta non è l’unica che sia stata fatta con questa tecnica. E tutte quelle esposte sono davvero spettacolari, ci propongono una visione del mondo a volo d’uccello, a bassa quota e in modo del tutto insolito per la nostra visione umana. Il drone insomma trova una sua collocazione come quella a suo tempo trovata dalla macrofotografia o dall’utilizzo di sensori ad alti ISO che hanno fatto dimenticare l’uso dei flash in modo quasi naturale e senza alcun rimpianto. E l’abbassamento dei costi di acquisto di un drone ne hanno facilitato la diffusione, solo due anni fa il costo di un drone professionale era di 20.000 Euro, oggi con 5.000 Euro hai una versione ancora superiore, stabilizzata e più evoluta rimanendo sempre tra le apparecchiature professionali senza scendere in qualcosa che sia ben sotto i 1000 Euro ma che è un giocattolo evoluto, in grado di fare il suo lavoro, ma non in modo professionale.

[caption id="attachment_14719" align="aligncenter" width="640"]WPP Massimo Sestini alta Foto: © Massimo Sestini

LO STILE:

L’altro elemento caratteristico che mi ha colpito quest’anno è stato un minore uso di Photoshop, meno saturazioni esagerate, meno forzature nelle desaturazioni, ma un più autentico lavoro di pulizia e naturalezza dell’immagine. Anche qui il segno di un mondo che cambia. Anche nel caso dell’uso degli strumenti di correzione cromatica nelle precedenti Edizioni si è parlato a lungo in questi anni: foto eliminate “per eccessivo uso di Photoshop” fotografi radiati dall’Ordine dei Fotogiornalisti per aver eliminato parti di foto con il “Timbro clone”, ecco di queste cose e queste polemiche quest’anno non se ne sono viste. Non credo che i Fotografi abbiano capito la lezione dagli episodi citati. Credo che invece anche lo stile e il modo di usare gli strumenti preesistenti sia una naturale evoluzione dell’Arte fotografica. Quando i Fotografi (di bassa lega) iniziarono a scoprire Photoshop, qualche anno fa, il primo istinto era quello di stravolgere completamente la gamma tonale delle foto aumentando i contrasti, solarizzando le foto fino a renderle “alla Andy Warhol” e “drammatizzarle” il più possibile giustificando il loro operato con “Mi piacciono le tinte forti o le ombre profonde” o in altri casi dicendo:”preferisco sottoesporre”….

WPP Cecenia
Foto: © Jérôme Sessini

Quest’anno per magia il trend è andato verso la natura e la naturalezza dei toni cromatici, delle ombre, delle luci. Abbiamo visto immagini di ottima qualità, belle, ma senza clamori. Sono mancate, per fortuna le forzature cui eravamo abituati e alle quali iniziavamo a stancarci da tempo. L’uso di Photoshop non è stato bandito, ci mancherebbe, ma è servito più a “pulire” le immagini che non a caricarle, come si dice: “il trucco c’è ma non si vede”.

WPP Babbo Natale
Foto: © Ronghui Chen

I NUMERI:

quest’anno sono arrivate in Giuria 97.912 foto inviate da 5.692 fotografi professionisti di 131 Paesi diversi.

La giuria ha creato 8 categorie: Spot News, Notizie Generali, Storie d’attualità, Vita quotidiana, Ritratti, Natura, Sport, Progetti a lungo termineSono stati premiati 41 fotografi di 17 diverse nazionalità: Australia, Bangladesh, Belgio, Cina, Danimarca, Eritrea, Francia, Germania, Iran, Irlanda, Italia, Polonia, Russia, Svezia, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti.

La Foto dell’anno 2014 è del danese Mads Nissen. L’immagine mostra una coppia gay russa in intimità.

Nove i fotografi italiani vincitoriFulvio Bugani, Turi Calafato, Giulio Di Sturco, Paolo Marchetti, Michele Palazzi, Andy Rocchelli, Massimo Sestini, Gianfranco Tripodo e Paolo Verzone.

L’Agenzia Contrasto si è aggiudicata due premi assegnati a Michele Palazzi (Primo Premio, Vita quotidiana, Storie) e Gianfranco Tripodo (Terzo Premio, Notizie generali, Foto singole).

WPP Mads Nissen
Foto: © Mads Nissen

 

Il comandante della caccia reale

Dal Romanzo Il comandante della caccia reale di Renato Gabriele (Genesi, Torino 2008). Il libro narra la vicenda, intorno all’anno 1830, di Nicandro Ferrante, master di caccia di Francesco I di Borbone. Il Romanzo è stato selezionato per il Premio Campiello 2008. Clicca qui per vedere la scheda del libro

Il libro sarà in vendita durante il workshop.

S’incamminò per la lieve discesa di Toledo inondata di sole ed ormai molto animata. Era completamente stordito dall’alto rumore che vi risuonava come un cacofonico sottofondo musicale dal quale a strappi, secondo il prevalere dell’uno o dell’altro strumento, si poteva distinguere ora un sonoro zoccolare ora un arrotare o un battito metallico ora il richiamo d’un venditore ora il vociare di un gruppo di persone o una canzone proveniente da una finestra.

Diversi lo seguivano con lo sguardo e qualcuno addirittura si voltava, forse incuriosito dal contrasto che fra loro facevano i vestiti dal tono tanto discorde e dal fucile che portava con la canna in giù, a spasso per la città, unitamente alla borsaccia. Gli si avvicinò un fratacchione di cerca che gli chiese l’elemosina per le anime del purgatorio ma lo fece con un tono che gli suonò insultante. Dette una moneta e pensò che forse avrebbe fatto meglio a tenere la giacca vecchia ed a lasciare la nuova al sarto, per ritirarla l’indomani insieme con le brache.

Considerato che il sole scaldava a sufficienza ed anzi finanche troppo, si svestì della giacca ed andava portandola ripiegata sul braccio, restando con il solo panciotto sulla camicia.

Il largo di San Ferdinando a Chiaia brulicava di gente intorno ad un paio di saltimbanchi. I due caffè erano pieni di uomini in tuba e vestiti di nero. In giro c’erano donne con l’ombrellino e nugoli di ragazzini rattoppati, da cui don Nicandro si tenne accuratamente alla larga, reputandoli pericolosi marioncelli ed avendo per giunta l’impaccio del bagaglio e dell’arma, che sicuramente riducevano le sue difese contro i borseggiatori. E tra quella gente dovevano essercene molti.

Si fermò sulla piazza di palazzo. Eccola là davanti, la chiesa di Pietro Bianchi, la intravedeva dietro l’impalcatura. Non gli parve una cosa speciale, almeno per quello che ne avrebbe potuto capire lui; doveva però essere importante, se lo stesso architetto aveva saputo ideare quella grande macchina del teatro mobile alla Fagianeria, un marchingegno poderoso, per l’Anticristo!, che aveva potuto essere smontato in così poco tempo e trasportato altrove.

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Van Pitloo

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Camminando per la via fu costretto a mettere i piedi in certi rivoli d’acqua o d’altri liquami, cercando intanto di schivare scoli e iatture che potessero macchiargli la chamberga. Ma non poté schivare le continue richieste d’elemosina che gli faceva una moltitudine di persone malridotte, coperte di stracci e chiaramente denutrite, con gli occhi infossati dalla fame, emaciate, ingobbite e bitorzolute, zoppe e gozzute, cieche e mutilate, che suscitavano in lui uno schifo istintivo e nessun intenerimento caritativo ma reazioni d’insofferenza per nulla temperate:-Passa là, dannato zelluso…fetente! Non me toccare co’ ‘ste luride mani, per l’Anticristo!

Queste oltraggiose proteste gli causarono alla fine un’aggressione in un vicolo stretto in cui, ignorando che fosse a cul di sacco, era andato a cacciarsi. Se la cavò menando cazzotti poderosi e calci da mulo, senza neppur dover toccare la sferra che portava infilata alla cintura. Dovette però cambiare itinerario e portarsi a Toledo, dove c’era tanta gente e dove il numero dei mendicanti, pur non scemando, era più concentrato nei pressi delle chiese, dove ormai sul far della sera andava parecchia gente per la funzione vesperale, ed all’uscita dei palazzi gentilizi e dei conventi, dove restavano ad aspettare gli avanzi della cena.

Dopo aver bighellonato per fondachi e botteghe, guardando con insistenza negli occhi alle donne che passavano a piedi o in carrozza, quando gli riusciva di farlo, senza essere per nulla intimorito dalla presenza degli uomini che le accompagnavano, pensò di rientrare a palazzo. Non prima però di aver fatto le compere progettate e che volle abbondanti: di maccaroni e di zampi di porco arrostiti, di zeppolelle e di altre fritture. Per terminare con le dolcezze, aveva comprato frutti canditi e cioccolatte.

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Giacinto Gigante

Stava dirigendosi al Montedidio con lo scopo di vedere la ragazza, di presentarsi a lei sia per levarsi l’uzzolo che le trame della madre gli avevano messo in capo, sia per provare, non si sa mai, a corteggiarla, come aveva ormai capito di dover fare, corteggiare le donne che non amavano le maniere spicce alle quali lui era aduso, lui che per la verità trovava ridicole le mosse del suo mentore in proposito, il dolcissimo Fergola.Lui, il guardiacaccia, non aveva mai imparato a corteggiare ed al più era stato capace di fare due regali, trovando che questa fosse una facile strada di approccio alle grazie femminili.

 Per la strada però aveva cambiato idea sullo scopo della visita. Il nuovo proposito gli era stato suggerito dalla sensazione che gli avevano dato, quel giorno come quello precedente, le continue richieste d’elemosina di certi poveri cenciosi e gli sguardi di alcuni che incontrava: la senzasione di essere da quelli reputato un signore, e forse anche facoltoso. Avrebbe allora ben potuto presentarsi in una modisteria, anche per comprare qualche cosa di più costoso ed importante di una cuffia ricamata.

La modisteria si riconosceva da lontano per un’insegna a bandiera a forma di cappello. Da un braccio metallico infisso nel muro pendeva una sagoma di lamiera piuttosto sottile, ritagliata sul profilo di una cappina femminile alla moda, del tipo a sporta, e tutta dipinta a colori vivaci, così il passamano che accostava le tese per annodarsi sotto il mento, così i fiorellini e le aigrettes che ornavano la piatta cupoletta. Sulla cornice alta della porta, per chi provenisse dall’incrocio delle strade, e perciò visibile ben da lontano, era posta una vasta tabella di bandone leggermente curvato di foggia rococò, con dipinta la scritta Mode al centro di due silouettes, l’una di un paio di guanti lunghi, l’altra ancora di un cappellino.

L’interno ebbe su Nicandro l’effetto di una cappella di preghiera, per il sommesso mormorio che l’attraversava, senza che si distinguesse da quali labbra provenisse quel parlottare, se non da un’indistinta origine posta al centro di certi gruppi di due o tre giovani lavoranti a capo chino, la cui calma operosità fatta di svelti gesti di mani sicure, l’affascinava a guardare.

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Nicandro veleggiava a lunghi passi nel vento, che davanti al Castiello tirava gelido e gagliardo. Ad Astroni avevano forse già indossato i tabarri, a scanso che l’umido respiro del bosco intaccasse le ossa; forse avevano anche acceso i camini ed allungavano già le gambe alla fiamma, arrostendo le prime castagne per ingannare le ore del buio, che nel cono profondo della foresta anticipava la notte.

L’autunno che pareva in quei giorni talvolta smentito da certe brevi sopravvivenze dell’estate, si capiva comunque definitivamente arrivato: dalla qualità e dal colore dell’aria nelle sere e dai voli degli uccelli bruni, partiti ormai le rondini e i balestrucci, a rigare i più pallidi tramonti.

Anche a Napoli, finiti i fichi tardivi, s’erano già visti i frutti autunnali e soprattutto le ceste ricolme di castagne di Mercogliano, quei bei frutti così freschi e lucenti, e dentro così bianchi e sodi, con la barba dei fioricini ancora intatta.

A falcate s’era lasciato alle spalle l’Incoronatella ed in breve era giunto alla rua catalana, ancora alquanto animata, anche se i garzoni delle botteghe avevano cominciato a sgomberare, dagli attrezzi di lavoro e dai materiali d’ogni genere, la stretta strada che, tutta quant’era lunga, era selciata. Restavano all’aperto soltanto le opere finite e la merce, insomma soltanto gli oggetti da vendere. E così restavano appesi ai ganci esterni delle botteghe i panari e i canestri, i cordami d’ogni tipo e misura e, ammonticchiati com’era possibile alla meglio, per non ostruire il traffico dei carri e della gente, botti e varrili, mastelli e tinozze, e banchetti carichi di scelle di baccalà e d’arenghe affummichiate…

Negli interni già riluceva qualche lampa, come nell’officina d’un ferraro e nel fondaco d’un carbonaio, un uomo dalla faccia totalmente nera, in cui roteavano gli occhi d’un bianco inusitato, intento a spalare, per ammassarli in gruppi più grossi, i residui della vendita del giorno, che puzzavano del piscio d’ogni cane di passaggio.

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Uscendo per recarsi al teatro di San Carlo, ch’era proprio a due passi, girato l’angolo del palazzo reale, si ricordò di dover avvertire il guardaporta che sarebbe rincasato dopo l’ora normale di chiusura ma questi lo rassicurò che lo avrebbe trovato anche a quell’ora nella bussola a vetri, essendo previsti alcuni rientri a quattr’ore di notte, per via di altri spettatori dell’opera, gente importante del secondo piano.

Giunto sulla vasta piazza di palazzo, si volse alla sua sinistra, nella direzione del mare, scrutando il cielo, ma brevemente perché l’addensamento delle nubi attestava chiaramente come stesse mettendosi il tempo. Pioggia, di certo, e neanche poca! L’inverno, pensò Nicandro, si promette acquoso. Si lasciò andare al pensiero o piuttosto alla visione, tanto gli era nitida l’immagine davanti agli occhi, della pioggia, quando cadeva a fiumi su Astroni.

Mancando ancora un paio d’ore all’incontro con il barone, che doveva avvenire sotto il porticato del teatro, andò alla ricerca d’un barbiere per farsi radere. Presto trovò una bottega in cui c’era da attendere poco essendovi soltanto due avventori da servire, meno che nelle altre barberie, che aveva incontrato numerose nei quartieri spagnoli.

Entrò senza salutare e rispose con un salute a voi ai salamelecchi dell’untuoso padrone, che lo aveva chiamato cavaliere eccellenza. Tre erano i clienti serviti in quel momento, in turno c’era poi un giovane musicista o studente, che di continuo apriva con uno scatto la custodia del suo strumento, una sfavillante cornetta, che traeva fuori e soppesava per provarne i tasti con le dita e quindi riporla sul velluto rosso cupo e richiudere poi la nera scatola sagomata. L’altro in attesa era un barbogio in calze nere di seta e scarpe verniciate e dalle fibbie dorate, alla moda delle calzature che Nicandro aveva visto indossare solo dai prelati.

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La Scuola di Posillipo

Dopo circa un’ora ritornarono sulla piazza di palazzo, ormai sulla via di rientrare a casa per il pranzo domenicale. In piazza c’era un assembramento di gente che pareva far ali ad uno spettacolo o ad una gara che si stesse svolgendo lì in mezzo. Molti infatti urlavano incitamenti e sbattevano le mani o alzavano i pugni. Domandarono ai presenti senza però ben comprendere le risposte. Si trattava di una gara tra uomini che montavano…sì! certi cavalli meccanici, una diavoleria che veniva esibita per la prima volta in pubblico.

Si avvicinarono al canapo che delimitava lo spazio di quella giostra e videro da lontano, su certi stranissimi trabiccoli, due uomini scamiciati che affannavano a girare intorno ad una meta e si urtavano urlando come ossessi indiavolati. La prima a riconoscere Nicandro in uno dei due concorrenti, prima ancora di sentirlo urlare: per l’Anticristo t’afferro e te passo!, fu Pompilia. Lo vide che sgomitava allungando quelle zampacce da cane, chillo  farabutto d’uno  tradetore, per fare leva in terra e spingere in avanti quel marchingegno. Alla fine, arrivato per primo in mezzo a due panzoni in tuba, uno di qua uno di là, scese dal trabiccolo trafelato ed ansante, con le narici da cane ancor più dilatate del solito, ma possente, sangue di Giuda!, ed imponente, e ricevette da uno dei panzoni, che gridava: il vincitore, il vincitore!, una ghirlanda infiocchettata. E Pompilia dovette anche sopportare l’umiliazione di assistere al gesto plateale che il comandante fece, ma da chi l’aveva mai visto fare quell’orso cicisbeo?, di consegnare la ghirlanda a Margareta, che gli reggeva, quella smorfiosa inguantata di bianco, la giacca: proprio come una di famiglia, una mogliera!, e di nominarla regina davanti alla folla acclamante:- La ghirlanda la dongo a chesta regina jonna, a chesta figliola ch’è la rigina de chesta jurnata, a ‘sta bardascia affatata e gentile, che ave d’oro li capilli!

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Si diresse dunque alla rua catalana dove trovò una babilonia di gente nelle cui voci risuonavano lingue e dialetti incomprensibili. Oh maronna! Pure li Turchi ce stanno! Per ogni dove si vendeva qualcosa, sia roba da mangiare che cianfrusaglie. Si soffermò un poco a guardare un grassone con un turbante sormontato da una piccola falce di luna, ma che parlava napolitano con una voce pastosa ed arrochita, che gli gonfiava il collo, ad ogni parola, come quello di un rospo. L’uomo era impegnato in quell’uguale cantilena ipnotica che accompagna sempre il gioco delle tre carte, in cui era intento con le sue grassocce ma mobilissime mani dalle unghie cerchiate di una farda nera.

Allontanatosi da quel crocchio si sentì chiamare dalla voce di un ragazzetto alle sue spalle. Avrà avuto sette od al massimo otto anni ed era in compagnia d’una torma di coetanei scalzi e smandrappati come lui.-Signo’, signo’, vedite ccà…- Gl’indicava quella che diceva una grossa macchia, una lordura di grasso, giusto al centro delle spalle, su quella sciammeria tanto bella.

Nicandro non riusciva a guardare in quel punto della schiena e fece spallucce scacciando la banda di ragazzini con un gesto della mano e continuando a camminare. Ma uno di quelli, per convincerlo, gli aveva passato un dito su quell’untume nero e glielo aveva mostrato.- La vedite ‘sta ‘nzogna nera?- Nicandro allora si tolse la giacca e quelli l’aiutarono, facendo di tutto, ancorché lui li scacciasse come mosche fastidiose, per grattare il grosso di quella spessa e densa materia.- Vabbuono, iatevenne mo! Guarda tu che canchero m’hanno cumbinato a ‘sta sciamberga nova nova! Vabbuono accussì, iatevenne, iatevenne!-

I ragazzini, che fino a quel momento ridacchiavano sfottenti, che peccato…’sta bella sciammeria…guarda ccà!, e si davano di gomito strizzandosi l’occhio, si mostrarono come risentiti ed offesi dalle urla di don Nicandro e si dileguarono rapidamente. Fu allora, appena quelli furono spariti dalla sua vista, che Nicandro portò istintivamente la mano alla tasca della chamberga. Vuota. Un tuffo al cuore.

Meccanicamente tastò il giustacuore. Il rigonfio era lì, quello almeno per fortuna. Certo avevano dovuto tastarlo anche chilli nati da cane, bastardi mariuoli. Adesso che ci pensava, si rendeva conto di averli scacciati , ed in malo modo, non per reazione a quella finzione d’aiutarlo ma per il fastidio d’essere toccato simultaneamente da tante mani in ogni parte del corpo. Ecco, cercavano il fagottone, il pacco grosso, e dovevano aver urtato anche la sferra che portava alla cintura, dovevano averla subito vista, ‘sti muccusi delinquenti! E lui, la sferra, quella no che non gliel’avrebbe lasciata sfilare; i denari sì, in quello erano riusciti. Altra cosa sarebbe stato il tentativo di sottrargli il coltello, la cui presenza al suo fianco era né più né meno che quella di un arto aggiuntivo e di cui serbava la coscienza che si ha delle membra del corpo.

Renato Gabriele è scrittore, poeta e saggista.

Cell. +39 349 6678755

Email: renatogabriele43@gmail.com

Danubius di Marco Bulgarelli a Roma

Siamo andati a vedere la mostra Danubius di Marco Bulgarelli al Museo di Roma in Trastevere. Per chi non lo conoscesse, questo bellissimo spazio espositivo si trova nel bel mezzo di uno dei quartieri più storici e caratteristici della Capitale, Trastevere, appunto. Il museo è ricavato nelle sale di un ex convento con tanto di chiostro ora riadattato a galleria espositiva, e le foto sul Danubio sono esposte nella Galleria al piano superiore, in quelli che furono i corridoi tra le varie stanze.

image-4Descrivo lo spazio perchè ben si presta alle foto di Marco Bulgarelli, la cosa che si nota infatti è proprio il percorso di avvicinamento che fa il Visitatore per arrivare a fruire di queste immagini. Trastevere è una zona pedonale e per arrivare alla mostra fortunatamente si è obbligati (uno dei pochissimi posti di Roma) ad attraversare a piedi una vasta isola pedonale chiusa al traffico e piena di persone. Si cammina, quindi, almeno una decina di minuti dal più vicino luogo di transito delle auto. Il camminare riduce la velocità degli spostamenti e allontana dallo stress del traffico. Insomma, per quando arrivi al Museo sei rientrato in empatia con te stesso, hai lasciato i rumori dei motori lontano, hai dimenticato il fattore tempo, così importante per vivere in una città come Roma. Quando arrivi insomma le tue orecchie hanno iniziato a riascoltare il canto dei gabbiani che ti volano sulla testa, ti sei accorto che Trastevere è un luogo a misura d’uomo in cui l’auto non serve e le persone ancora possono salutarsi per strada perchè riescono a parlare, a sentire le voci anche se i toni sono bassi. Quando arrivi alla mostra anche gli occhi sono più attenti ai dettagli, più liberi di guardarsi intorno e di relazionarsi prima con la città, ora con le opere. Camminando tra la gente hai seguito per circa un chilometro un flusso di persone, una serie di incontri con Turisti e Romani e hai seguito una direzione, lentamente. Tutto questo in un ritmo a misura d’uomo, riuscendo a percepire la temperatura dell’aria e altri fattori in cui non siamo abituati a muoverci e proprio per questo quindi ci risultano particolarmente congeniali.

Senza accorgertene sei arrivato fin qui imitando, senza volerlo, il lento percorso silenzioso che fa il fiume Danubio nel suo scorrere e fluire fino al Mar Nero per 2860 chilometri attraversando 10 Stati. Tu stesso sei diventato fiume, goccia umana in un flusso di uomini, sei arrivato fin qui seguendo il corso della natura. Silenziosamente.

image-1E il silenzio è proprio ciò che di più colpisce vedendo le bellissime fotografie di questa mostra. Il silenzio dei passi che camminano dentro Trastevere, il silenzio di un ex Convento in cui sono esposte le foto, il silenzio che esplode senza far rumore dalle immagini di questo silenzioso Fotoreporter romano che espone nella Galleria più caratteristica e bella della sua Città.

Già, quel silenzio ti pervade mentre guardi la mostra. Sarà forse la neve a rendere l’osservazione più ovattata? Sarà per quel fenomeno gestaltico che riorganizziamo il nostro campo percettivo e ci sembra di sentire silenzio mentre vediamo la neve? Forse si…. Tutta quella neve che imbianca le foto di Bulgarelli amplifica il silenzio che circonda l’osservatore rendendolo ancora più profondo.

Vedendo le foto di Bulgarelli noto il silenzio di quei luoghi innevati in cui ci sono si, sempre persone, ma non c’è mai fracasso, mai sembra di percepire alcun rumore al dilà di un leggero brusio di sottofondo. Le foto di Bulgarelli emettono il silenzio del momento in cui sono state scattate, in quei paesaggi invernali con sconfinate pianure innevate. E’ un pò il motivo di questa mostra. Anche le persone presenti nelle immagini appaiono sospese in un luogo senza rumori. Anche lo scatto in cui si vedono decine di persone in fila che appaiono essere profondamente vuoti dal punto di vista acustico. Le persone non parlano, non schiamazzano… Anche le foto fatte in estate hanno gli stessi silenzi ovattati di quelle invernali. Già, perchè le foto della mostra sono frutto di numerosi viaggi fatti lungo il Danubio in tutte le stagioni dell’anno, la ricerca di Bulgarelli si è protratta per anni nell’esplorazione di tutto il fiume dalla sorgente al sul delta…

E questo silenzio accompagna il Viaggio di un Viaggiatore Solitario come Bulgarelli che esplora il Danubio spostandosi in bicicletta, anche in questo caso senza eccedere in velocità, e, ovviamente, senza far rumore. Il Danubio scorre lentamente, non è un ruscello di montagna fragoroso, è un grosso Fiume che porta migliaia di metri cubi di acqua, merci, persone, il tutto senza clamore. Come Bulgarelli: non fa clamore ma è una persona straordinaria portata a stare con le persone, che nei suoi viaggi avvicina persone con il linguaggio non verbale (e stavolta neanche fotografico!) fatto dalle persone sincere che sanno scambiarsi stima, simpatia e ospitalità attraverso la semplicità e la spontaneità di un sorriso: codice universale di accoglienza e predisposizione verso l’altro. Avvicinare Bulgarelli non è difficile, non fa il divo Bulgarelli, ha la guardia bassa, non sta in difesa, ha la calma delle persone sicure di se che non hanno paura di nulla.

INFO SULLA MOSTRA:

Andate a vederla, questa mostra al Museo di Roma In Trastevere, per leggere una presentazione ufficiale vai sull’Evento di Facebook cliccando qui.

Per info e orari andate sul sito Ufficiale cliccando su questo link.

IL LIBRO:

Il LIBRO della mostra “DANUBIUS” (Museo di Roma in Trastevere, fino al 12 gennaio 2014) uscirà a metà dicembre, è un ottimo regalo di Natale, parlane anche con i tuoi amici e parenti. Sarò eternamente grato per questo piccolo gesto di grande valore. ACQUISTALO ONLINE SUL SITO DELLA CASA EDITRICE: http://www.postcart.com/danubius.php

 

Elegia Romana

Quante immagini offre di sé una città? Quante ne mostra Roma? Infinite, tante quanti sono gli occhi che la guardano, quanti sono i passi che la attraversano…Tra le tante vi proponiamo questa volta la visione di una prima volta, quella di un bambino degli anni quaranta dello scorso secolo. Si tratta di un racconto bellissimo e struggente, pieno di meraviglia e di stupore; una narrazione attenta a cogliere le irripetibili atmosfere di un’epoca storica irritornabile. Ecco dunque questo racconto dal titolo “Elegia romana”, pubblicato nel 2003 da L’argonauta, nel volume “Il giorno dell’ira e altri racconti” di Renato Gabriele.

ELEGIA ROMANA

Racconto: Renato Gabriele

Fotografie: Roberto Gabriele

“Stiamo arrivando, mi aveva detto lo zio, siamo sul binario”. Era stato lungo quel viaggio, avevamo ingoiato il fumo del treno nelle gallerie; sentivo in bocca un sapore di fuliggine. Nello scompartimento s’era formata una nebbia densa, tante le sigarette che gli uomini avevano fumato. Uno, seduto di fronte a me, ne aveva confezionate tante con quelle mani dure, callose. Gli riuscivano male, storte,mezze vuote. Le leccava per incollare i lembi della cartina e, così bagnate di saliva, le fumava con boccate piene strizzando gli occhi e lasciando che il fumo gli uscisse dagli angoli della bocca.

Durante il viaggio ero stato al finestrino a guardare gli alberi e le case sfilare veloci. C’erano autocarri abbandonati sulle strade, qualcuno rovesciato in un fosso. Erano carcasse spoliate di tutto, senza più motore, senza copertoni. Avevano perso ogni cosa, con il tempo avrebbero smontato e portato via anche il resto. Avevo visto un piccolo autoblindo e perfino un aereo che sembrava un giocattolo dimenticato su un prato. “ I segni del conflitto”, aveva detto lo zio, con quel suo parlare preciso. Mi dava brevi ma complete spiegazioni che non ammettevano domande né repliche.

Ad una fermata del treno avevo avuto paura di aver perso lo zio, avevo provato il panico di essere solo, abbandonato. Lo zio, che era sceso per bere alla fontanina della stazione, non era ancora tornato quando il treno si era rimesso in movimento, L’uomo che fumava mi aveva però rassicurato:” Non preoccuparti, vedrai che viene subito…tuo padre, sarà salito in un vagone dietro”. L’avevo visto esitare ma non avevo voluto dirgli che quegli era mio zio, che mio padre era morto. Adesso lo zio era lì, davanti a me, con gli occhi chiusi.

IMG_0713Uno strattone, un rumore di ferraglia, un urto, un sussulto:”Ci siamo, vedrai com’è Roma”, fece lo zio con voce atona, senza enfasi, con la serietà di che propone di assolvere un dovere, un compito. Mi domandai subito se quella di Sassa, da dove ero partito quella mattina, fosse una stazione vera, se potesse chiamarsi una stazione, con le sue aiuole fiorite, lo zampillo, le panchine: tutto al sole, all’aperto, dove a certi intervalli regolari passava un trenino per bambini. Qui a Roma era tutto più scuro. C’erano molti treni allineati, ed erano neri, enormi. A Sassa passava soltanto la littorina, un trenino con un solo vagone, che si annunciava con un rombo come di un tuono che vada spegnendosi, nel silenzio assoluto della valletta.

C’incamminammo tra tutta quella gente vociante che pareva andare verso un’unica direzione comune. Tutti parevano presi da una smania che li accelerava. Trascinavano vecchie valigie di fibra, segnate e graffiate, stracariche, legate con lo spago e con grosse cinghie. Pensai che quella gente non desiderasse, dopo di là, andare in nessun altro luogo. Sembravano arrivati per restare ma continuavano a muoversi in quel posto su itinerari prestabiliti, a volte paralleli, a volte incrociati. Come le formiche. Non sapevo se io fossi arrivato per restare.

Quattro giorni prima giocavo ancora ai banditi con Nicolino. Ci appostavamo in mezzo al malvone, ai sambuchi, dietro le fratte del biancospino. Poi era arrivata tutta quella gente, che veniva su verso la nostra casa dallo stradone bianco. Erano scesi dalla corriera poco più sotto, a Madonna della Strada. Erano bianchi di pelle, molti di loro portavano gli occhiali. Mi pareva strano, mi ero chiesto per quale motivo tanta gente insieme portasse gli occhiali. Il giorno dopo era stato mio fratello a dirmi che nostro padre era morto, che quelli erano parenti venuti per la sua morte, per il suo funerale. Non conoscevo nessuno di loro, neppure lo zio che mi aveva portato a Roma con sé.

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Ed eccomi qui, arrivato a Roma, tra quella folla frenetica, disordinata. Lo zio aveva portato con sé un incarto con un quadro di mio padre. In treno, un momento che eravamo soli, mi aveva parlato un poco di lui, della sua vita sfortunata. Avevo sentito per la prima volta che la vita di mio padre era stata sfortunata. Non sapevo che una vita potesse essere sfortunata. “Chi di voi sa disegnare, chi ha ripreso da lui?”aveva chiesto lo zio. Io avevo fatto spallucce lasciando cadere la domanda. Lo zio mi rassicurava, con la sua voce paziente. In quei giorni le voci di tutti quelli che erano venuti nella nostra casa avevano un comune accento, che non uniformava però la sostanza della voce. La voce della Bolognese era rimasta una musica per me, come sempre.

IMG_0693Adesso camminavamo in silenzio, io portavo il mio pacco con la biancheria. Sul treno lo zio aveva detto:”Io porto i miei colli, tu porta il tuo pacco.” Non sapevo che cosa fosse un collo ma lo capii quando vidi che lui dava di piglio ai suoi involti. Presi il mio pacco fatto con la carta di giornali e tenuto con lo spago. Molti passeggeri avevano pacchi come il mio.

Camminavamo affiancati, immersi nei nostri pensieri, tra uomini in maniche di camicia, con le maniche arrotolate, tra donne in abiti colorati. Qualcuno portava la giacca sul braccio o appoggiata alle spalle senza infilare le maniche.

Usciti da quella fiumana, aspettammo a lungo alla fermata del tram. Non ne avevo mai veduto uno prima di quella volta. Passava scorrendo pesantemente sui binari, con gente appesa dovunque fosse possibile, all’esterno. Dietro, però, su un rigonfiamento da cui partiva un grosso cavo, c’era solo un ragazzo perché l’appoggio era difficile. Riuscimmo anche noi a salire, impacciati nei nostri colli e restammo in piedi, pigiati da ogni lato.

IMG_1216Scendemmo in un viale di periferia. Qui c’era gente più distesa, una folla ilare il cui vociare si dondolava a momenti sui rami delle acacie e restava talora come improvvisamente fermo nell’aria. Aspiravo profondamente l’odore delle gaggie, che mi riportava celermente al ricordo di Madonna della Strada. Qui però era costruito tutt’intorno, la strada era incassata tra gli alti fabbricati come un fiume tra alte rive scavate. Una strada di Roma era un po’ come una cupa di campagna, solo che al posto delle sponde di terra con gli arbusti penduli c’erano alte sponde di mattoni e steli di fanali. Adesso sentivo l’odore di frittura che usciva denso da una friggitoria. Odori nuovi per me; buono, piacevole quello che annusai passando davanti a un negozio con la scritta Pizzicheria. Dentro c’erano meravigliose torri di tonde scatolette rosse.

Voltammo in una strada morta, buia, dove non passava nessuno. Lo zio mi condusse in una latteria, un posto bianco di infinita tristezza. L’odore qui mi stomacava, detestavo il latte. Al banco c’era un uomo tutto vestito di bianco, aveva un lungo grembiule. Odorava di latte, aveva bianchissime le mani. A servire c’era anche una ragazza con un berrettino bianco a forma di bustina. La ragazza rideva con un militare, mentre gli serviva una coppa di panna. Trangugiai senza fiatare il bicchiere di latte che lo zio mi aveva porto. Mi domandò se ne desiderassi ancora. Risposi “Nz, grazie”. Lo zio mi suggerì di dire no invece di nz. “No, grazie”, feci io.

Elegia romanaIn quel posto di desolante disperazione, in quel limbo albicante ebbi un urto del sangue, un soprassalto di palpiti nella gola:avevo visto mio padre, seduto a uno dei tavoli lungo il muro, mio padre che mangiava un uovo fritto intingendo nel rosso i pezzetti di pane. In quel sepolcro imbiancato e piastrellato.

Riprendemmo il tragitto per la strada morta. Passò una solitaria motocicletta a tutto gas, lasciandosi dietro un penetrante odore di olio bruciato. La strada mi pesava nelle gambe, camminavo in silenzio senza sapere dove fossimo diretti, neppure lo avevo domandato. Affrettavo il passo per uguagliare le falcate dello zio taciturno. M’ero incupito, attristato, sentivo un dolore indefinibile, oscuro. Mi entrava dentro per vie sconosciute, non era il dolore delle sassate di Nicolino. Questo era un disgusto, una nausea. Mi dissi che Roma era quel dolore, il mio spasmo indefinibile.

IMG_1514Eravamo accaldati, camminavamo senza una parola. L’asfalto era molle ed esalava un odore acuto. Le case s’erano fatte rade, finché la strada morta andò a perdersi in un luogo aperto, buio, da cui si vedevano lontani fanali. Arrivammo sotto un caseggiato immenso, altissimo, una enorme scatola grigia che s’innalzava da un terrapieno in mezzo a sterri, al centro di una radura di sterpaglia, dove c’erano cumuli di detriti disseminati qua e là. Ai margini nereggiava l’imponente torre di tubi di un gasometro e, sotto, la sagoma a denti di sega di un tetto di fabbrica dalla tozza ciminiera.

Salimmo per una scala che mi parve interminabile, fino alla cima del caseggiato, là dove c’era l’appartamento dello zio. Lì dentro mi sentivo soffocare, lo spazio mi si chiudeva intorno. La zia scambiò brevi parole con lo zio. Mi prepararono una branda nella camera da pranzo e mi mandarono a letto. Ma non potei dormire. Guardavo l’ombra listata della persiana. Noi a casa non avevamo persiane ma imposte e tra queste passavano spiragli di luce, lame in tralice che dividevano il buio della stanza, quando nei pomeriggi di caldura , mia madre ci obbligava ad andare a letto.

Mi alzai e mi misi alla finestra. L’altezza mi sembrava vertiginosa, non ero mai stato così in alto. Guardavo l’abisso della radura,laggiù. Scrutavo il cielo. Le stelle brillavano pallide,sbiadite. Lassù arrivava un indistinto rumore, come un sommesso grugnito. Sentivo una radio, da basso. Una voce falso-flautata cantava:”Vecchia Romaaa, sotto la lunaa, non canti piùùùù…

Da “Il Giorno dell’ira e altri racconti”di Renato Gabriele, L’Argonauta Editore, 2003

 

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La grazia scontrosa di Trieste

Trieste

Questo ci dice Umberto Saba:” Trieste ha una scontrosa/ grazia. Se piace,/ è come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore;/ come un amore/ con gelosia.”

TriesteSono versi che ritroviamo nel libro”Trieste e una donna”, che raccoglie le poesie scritte tra l’anno 1910 e il ’12 e che in particolare include i versi ispiratigli dalla sua città. Di essa egli compone un ritratto intimo, velato di una sorta di gelosia per i luoghi che a lui sono di conforto e che non vorrebbe condividere con nessuno. Quei luoghi stessi, che egli nomina indicandone talvolta la reale toponomastica, sono da lui ricercati come ricetto e rifugio alla sua agitata esistenza, che sappiamo turbata da ricorrenti stati di perniciosa malinconia e di depressione. Nonostante questo male dell’anima le poesie di cui parlo, come del resto gran parte della poesia di Umberto Saba, hanno la singolare trasparenza e la trasognata delicatezza di cui è capace  la sua lingua piana e persuasiva, la lingua, appunto, degli affetti e degli intimi moti del cuore.

TriesteUna singolare attrattiva dei luoghi può talvolta consistere nella ricerca di rispondenze, per quanto tenui, per quanto affievolite dal tempo e dalle mutazioni subite dai contesti urbani, di rispondenze, dicevo, tra la descrizione fattane da taluno, in specie da uno scrittore o da un pittore, e lo stato attuale. E, in questo caso, il possibile intento sarebbe quello di verificare la residuale esistenza di quelle impressioni, di quell’archeologia del sentimento: impresa ardua, è vero, ma proprio per questo appassionante.

Trieste

Umberto Saba

Umberto Saba ci dà di Trieste sia la veduta complessiva: quell’azzurra luminosità, quei colori (“circola ad ogni cosa/ un’aria strana, un’aria tormentosa,/ l’aria natia”) sia la veduta particolareggiata: quel mare, quella gente (“Qui prostituta e marinaio, il vecchio/ che bestemmia, la femmina che bega,/ il dragone che siede alla bottega/ del friggitore,/ la tumultuante giovane impazzita/ d’amore…”). La possibile rivisitazione dei luoghi non raffigura dunque una sorta di convenzionale pellegrinaggio turistico, bensì un’appassionata ricerca di atmosfere, quelle che certi posti sanno restituirci semplicemente con il mostrare l’opera del tempo. Del resto non si tratta qui di luoghi celeberrimi come la “siepe dell’infinito”, autenticamente mitizzata, non si tratta di luoghi citati con intento celebrativo ma semplicemente di posti dai nomi familiari e dunque direttamente evocativi di umani affetti.

TriesteRestando ai versi di Umberto Saba, si potrebbe dunque ricercare la Via del Lazzaretto Vecchio: “C’è a Trieste una via dove mi specchio/ nei lunghi giorni di chiusa tristezza:/ si chiama Via del Lazzaretto Vecchio./ Tra case come ospizi antiche uguali,/ ha una nota,una sola, d’allegrezza:/ il mare in fondo alle sue laterali./ Odorata di droghe e di catrame/ dai magazzini desolati a fronte,/ fa commercio di reti,di cordame/ per le navi…” E ancora: “ A Trieste ove son tristezze molte,/ e bellezze di cielo e di contrada,/ c’è un’erta che si chiama Via del Monte. Incomincia con una sinagoga,/ e termina ad un chiostro; a mezza strada/ ha una cappella, indi la nera foga della vita scoprire puoi da un prato,/ e il mare con le navi e il promontorio,/ e la folla e le tende del mercato./ Pure, a fianco dell’erta, è un camposanto/ abbandonato…”, “ ma la via della gioia e dell’amore/ è sempre Via Domenico Rossetti./ Questa verde contrada suburbana,/ che perde dì per dì del suo colore,/ che è sempre più città,meno campagna/ serba il fascino ancora dei suoi belli/ anni, delle sue prime ville sperse,/ dei suoi radi filari d’alberelli…” Il poeta ci parla anche della Via della Pietà, “sì lunga e stretta come una barella./ Hanno abbattute le sue vecchie mura,/ e di qualche ippocastano si abbella.”

L’intima cosmologia del poeta si compone di molti posti non nominati ma descritti con vaghezza come altrettanti topoi dell’anima, luoghi che esercitano su di lui quel fascino recondito che percorre le strade del cuore e che è bello e ci commuove senza un motivo preciso, un motivo che noi stessi non vogliamo approfondire al solo scopo di restare nella suggestione dell’intenerita maraviglia. Un ultimo posto voglio citare. Questo è il Molo: “ Per me al mondo non v’ha un più caro e fido/ luogo di questo. Dove mai più solo/ mi sento e in buona compagnia che al molo/ San Carlo, e più mi piace l’onda e il lido?”

Molto si è scritto di Trieste, molti passi vi sono e anche saggi ad opera dei suoi celebri scrittori, molto si può dire di questa città, città giovane e cresciuta con foga. A me piace pensarla come la città del vento, come la città spazzata dal vento. Le strade del vento s’incrociano nel cielo, in un freddo mattino di campane. Sotto un cielo d’ardesia, lentamente marcisce l’autunno nei giardini.

Renato Gabriele

 

 

 

 

 

 

Premio Kapuscinski 2013

25 settembre 2013

Il 24 settembre si è conclusa, con la proclamazione dei vincitori, la seconda edizione del “Premio per il Reportage” intitolato al giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński, manifestazione che si è tenuta come anteprima della più ampia rassegna intitolata “Festival della letteratura di viaggio“, in svolgimento a Roma fino al 29 settembre.

Questo premio vive grazie all’iniziativa dell’Istituto Polacco di Roma in collaborazione con la famiglia Kapuściński e con Feltrinelli Editore.

 

Alla serata hanno partecipato, tra gli altri, anche Alicja Kapuścińska, vedova dello scrittore, Jaroslaw Mikolajewski, il noto poeta e giornalista polacco, che è stato fino a pochi mesi fa direttore dell’Istituto Polacco di Roma, e Marino Sinibaldi, giornalista di Radio Rai e conduttore radiofonico, molto noto come instancabile promotore e animatore di grandi iniziative culturali, il quale ha coordinato gli interventi dei partecipanti alla serata ed ha intervistato i premiati.

La manifestazione si è svolta a Roma, in Campidoglio nella splendida sala Pietro da Cortona, alla presenza di un folto pubblico, nel quale abbiamo riconosciuto persone di grande spicco del mondo culturale italiano e polacco.

I Premiati:

Sono stati premiati, nell’ordine, il fotografo Ferdinando Scianna, lo scrittore Francesco M.Cataluccio, e il giornalista e scrittore Paolo Rumiz, tutti e tre personaggi di alto profilo che non hanno bisogno di presentazioni.

Il  clima della serata è stato molto piacevole, direi soprattutto per il modo informale in cui si è svolta, un modo improntato all’amicizia e soprattutto alla rievocazione della figura di Kapuściński, del quale, oltreché i meriti di grande reporter e scrittore, nonché di poeta, come forse non molti sanno, è stata delineata la figura umana in aspetti inediti quanto interessanti.

Le prospettive più squisitamente umane e personali di lui sono state messe in risalto dagli interventi della vedova di Kapuściński e dai tre premiati, che con grande generosità hanno poco parlato del proprio lavoro e invece hanno molto parlato di lui, dei loro ricordi provenienti dalla frequentazione diretta con lo scrittore e del significato da lui avuto, quando vi è stato, come punto di riferimento pratico,e anche simbolico, di un modo di lavorare e di scrivere.

Io stesso ho avuto il piacere di conoscere personalmente lo scrittore, che ho incontrato varie volte, e sempre ne ho ammirato la figura schiva e come inconsapevole della propria grandezza, quella che invece gli è stata universalmente riconosciuta fino a consacrarlo come l’autentico scopritore del reportage giornalistico.

Renato Gabriele

Regolamento Maratona Fotografica

PRESENTAZIONE:

La Prima Maratona Fotografica di Roma si svolgerà il 20 ottobre 2013, nel weekend d’apertura dei Photographers Days.

Un evento originale per tutti i Romani e non solo: dedicato alle bellezze di Roma e alla voglia di vivere!

 

Ciascun Partecipante potrà fotografare liberamente i Figuranti in stile anni ’60 e ottenere delle immagini che evochino visivamente quel periodo.

 

Regolamento

1) Organizzazione:

VISIVA e Photographers.it, con la direzione artistica del fotografo Roberto Gabriele e l’aiuto di numerosi Partner, tra cui Fotolia, TuttoDigitale, Trasportando.com, Viaggiofotografico.it e FotoSciamanna organizzano la “Prima Maratona Fotografica di Roma”. Un evento fotografico originale per tutti i Romani e non solo: Ambientato nelle atmosfere della Roma degli Anni 50 e 60, dedicato alle bellezze della Capitale e alla voglia di vivere.

La “Prima Maratona Fotografica di Roma” si terrà il 20 Ottobre 2013 alle ore 9,00.

 

2) Informazioni e logistica

La Segreteria della Maratona Fotografica è presso: VISIVA, via Assisi 117, Roma

WEB: http://www.visiva.info/ EMAIL: info@visiva.info TEL: 06/96042680 CELL: 346/7262388

3) TEMA:

La Maratona Fotografica è una manifestazione estemporanea di Fotografia Digitale in cui le foto giudicate migliori verranno esposte presso VISIVA in una mostra collettiva con omaggi dai nostri partner per i migliori classificati.

Il tema della Maratona Fotografica è la Roma degli anni ‘60. Per le ambientazioni a tema l’Organizzazione ha previsto dei figuranti in costume lungo il percorso della Maratona che saranno liberamente fotografabili (con Liberatoria di Gruppo già concessa all’Organizzazione)

4) Requisiti:

Si può partecipare con una fotocamera di qualsiasi tipo: Reflex, Mirrorless, Compatte e Cellulari.

Sono ammesse foto realizzate su supporti digitali o tradizionali (pellicola a colori, bianco e nero, sviluppo immediato) purchè scansionate e restituite come files digitali. Sono ammesse immagini comunque elaborate con sistemi digitali purchè realizzate durante la giornata della Maratona.

Possono partecipare Professionisti e Fotoamatori che abbiano compiuto almeno 18 anni, e i minorenni accompagnati da un genitore che li dovrà seguire per l’intera durata della maratona.

Non sono ammessi a partecipare alla Maratona Fotografica: i membri della Giuria, i componenti della Segreteria, tutti i soggetti che a vario titolo collaborino all’organizzazione della Maratona Fotografica ed i rispettivi familiari.

5) Iscrizioni:

Le iscrizioni sono aperte fino al 19 ottobre online dall’apposito form, pagamento con qualsiasi carta credito/debito oppure presentandosi direttamente presso Visiva la Città dell’Immagine in via Assisi 117 Roma

Costi di Iscrizione a persona:

  • 15 euro Easy Card

  • 30 euro  Vip Card (accompagnati da un Coach che darà spiegazioni su tecniche e composizione)

Per i primi 200 iscritti si applica un prezzo speciale scontato al 50%:

6) Fasi della Maratona Fotografica:

Coloro che non si saranno iscritti online potranno farlo direttamente il giorno stesso della Maratona, domenica 20 ottobre, pagando il prezzo intero.

  • Ore 8:00 alle 9:00 appuntamento per la registrazione presso VISIVA, via Assisi 117

  • Ore 9:30/10:30 briefing tecnico con i Partecipanti.

  • Ore 11:00 inizio Maratona.

– Ad ogni partecipante verrà fornita Card personale di partecipazione e la road-map con il percorso. I partecipanti si presenteranno con la propria fotocamera e con la propria scheda di memoria.

– La Maratona è suddivisa in tre tappe con sistema di punzonatura. Ogni partecipante ha l’obbigo, per il proseguimento della gara, di fermarsi ad ognuno di questi punti e lasciare i propri dati per essere registrato, pena l’esclusione dalla Maratona. LA MARATONA NON E’ A TEMPO, e NON conta in alcun modo l’ordine di arrivo. Ciascun Partecipante ha l’obbligo di rispetttare tutte le norme del Codice della Strada osservando la massima prudenza alla guida, ivi compreso l’uso del casco da motociclista che negli anni’60 non era obbligatorio.

– L’organizzazione si riserva di annullare o rimandare la maratona per cause di forza maggiore.

La “PRIMA MARATONA FOTOGRAFICA DI ROMA” si svolgerà anche in caso di maltempo.

– Terminata la Maratona i partecipanti devono consegnare minimo 3 (almeno una per tappa) e massimo 10 e fotografie alla segreteria di VISIVA, fisicamente o mandandole via mail o usando un servizio tipo web transfer a info@visiva.info entro lunedi 21 ore 23,00

La Giuria selezionerà 30 fotografie che verranno poi pubblicate su appositi album di Fb, con la possibilità per il pubblico di indicare, con il sistema dei “like”, le loro opere preferite. Le 3 opere che riceveranno il maggior numero di “like” riceveranno un omaggio da parte dei Partner.

– Le 30 opere selezionate dalla Giuria saranno esposte presso le gallerie di Visiva dal 27 Ottobre 2013, durante l’Edizione Romana dei Photographers Days. In questa sede verranno anche ufficializzati e premiati i Finalisti scelti, con omaggi dai nostri partner.

Le Stampe fine art delle trenta opere saranno offerte e realizzate dal partner FotoSciamanna.

I Vincitori saranno ufficializzati e riconosciuti tali solo se presenti al momento della Premiazione e solo nel contesto della Premiazione sarà possibile ritirare i Premi.

Le 3 foto migliori decise dalle votazioni pubbliche verranno ricompensate con 3 workshop di Fotografia in Italia offerti da www.viaggiofotografico.it

7) Diffusione:

La partecipazione alla Maratona Fotografica autorizza VISIVA, Photographers.it e gli sponsor della manifestazione ad utilizzare le immagini inviate a tempo indeterminato e con ogni mezzo per la promozione della Maratona Fotografica stessa e di eventuali edizioni future.

La pubblicazione potrà avvenire comunque limitatamente a quanto concerne la promozione della “PRIMA MARATONA FOTOGRAFICA DI ROMA” e citando sempre e comunque il nome dell’Autore.

Non sarà fatto nessun uso commerciale delle immagini diverso da quanto appena indicato senza il consenso esplicito dell’Autore.

8) Diritti di Terzi:

Il Partecipante dichiara sotto la propria responsabilità di essere unico Autore e di avere la paternità a pieno titolo per l’utilizzo delle immagini e che eventuali persone ritratte abbiano dato il loro incondizionato ed esplicito consenso alla pubblicazione e diffusione, pertanto s’impegna ad escludere gli Organizzatori da ogni responsabilità nei  confronti di terzi.

La manifestazione NON E’ A TEMPO e si svolge su strade aperte al traffico, gli Organizzatori invitano quindi tutti i Partecipanti al rispetto rigoroso di tutte le norme del Codice della Strada ivi compresi, l’uso del casco per le moto, e delle cinture di sicurezza per le auto in gara. E’ responsabilità del singolo Partecipante condurre il proprio mezzo nel rispetto delle regole e si esonera l’Organizzazione da ogni responsabilità diretta o indiretta in merito alla mancata osservanza delle norme di Circolazione stradale.

9) Privacy:

I dati raccolti saranno trattati ai sensi del D. Lgs 196/03 e utilizzati da Starring su www.photographers.it per raccogliere le iscrizioni e ceduti a VISIVA e ai Partner al fine del corretto svolgimento della Maratona Fotografica e per altri fini istituzionali e promozionali. I dati raccolti possono essere visionati, modificati, aggiornati o cancellati in qualsiasi momento

10) Omaggi per le foto migliori:

Gli omaggi dai nostri partner saranno consegnati solo ai 3 Finalisti che saranno presenti in sala al momento della premiazione che avverrà a ROMA all’opening della mostra il 27 ottobre 2013 presso Visiva in via Assisi 117.

In caso di assenza di uno dei 3 Finalisti si procederà all’assegnazione dell’ omaggio al Finalista successivo seguendo l’ordine di piazzamento stabilito dalla Giuria.

Premio Speciale: Miglior foto: una tavoletta Grafica Wacom Intuos

Intuos PRO

Alla giuria è riservato il diritto di non selezionare e non assegnare nessun omaggio qualora le opere presentate non raggiungano un livello qualitativo accettabile. Visiva  e www.photographers.it si riservano di non pubblicare le immagini che per qualsiasi motivo dovessero essere ritenute non idonee.

Il giudizio della Giuria è insindacabile e la stessa non è tenuta a motivare la scelta del vincitore.

Per informazioni sito WEB: www.photographers.it/maratonefotografiche

11) Accettazione:

L’adesione alla Maratona Fotografica prevede l’accettazione completa ed incondizionata del presente regolamento.

Prima Maratona Fotografica Romana

con la direzione artistica del fotografo Roberto Gabriele e l’aiuto di numerosi Partner, tra cui VISIVA, Photographers.itFotolia, TuttoDigitale, Trasportando.com, Viaggiofotografico.it e FotoSciamanna organizzano la “Prima Maratona Fotografica di Roma”. Un evento fotografico originale per tutti i Romani e non solo: Ambientato nelle atmosfere della Roma degli Anni 50 e 60, dedicato alle bellezze della Capitale e alla voglia di vivere, avrà come riferimento il film Vacanze Romane, che proprio quest’anno compie sessant’anni.

DOVE E QUANDO:

La “Prima Maratona Fotografica di Roma” si terrà il 20 Ottobre 2013 alle ore 9,00, nel weekend di apertura dei Photographers Days.

TEMA?

La Roma degli Anni ’60 al tempo del film Vacanze Romane. L’Organizzazione mette a disposizione lungo il percorso dei Figuranti in Costume Anni ’60 che saranno liberamente fotografabili e avranno già fornito apposita Liberatoria di utilizzo valida per tutti i Partecipanti regolarmente iscritti.

CHI PUO’ PARTECIPARE?

Possono partecipare Professionisti e Fotoamatori che abbiano compiuto almeno 18 anni, e i minorenni accompagnati da un genitore.

Non sono ammessi a partecipare alla Maratona Fotografica: i membri della Giuria, i componenti della Segreteria, tutti i soggetti che a vario titolo collaborino all’organizzazione della Maratona Fotografica ed i rispettivi familiari.

REQUISITI:

Si può partecipare una fotocamera di qualsiasi tipo: Reflex, Mirrorless, Compatte e Cellulari. Sono ammesse fotografie in Bianco e nero, a Colori, comunque scattate o postprodotte, sono anche ammessi tutti i tipi di supporti digitali, su pellicola o a Sviluppo Immediato.

COME FUNZIONA?

Ciascun Partecipante potrà fotografare liberamente i Figuranti in costume anni ‘60 messi a disposizione dall’Organizzazione e ottenere delle immagini che evochino visivamente quel periodo. E’ anche possibile per ciascun Autore organizzare dei propri set personali portando dei propri figuranti in costume e abbellire il proprio set con auto e moto d’epoca.

La manifestazione NON è una gara a tempo e si svolge su strade aperte al traffico e al pubblico, il percorso è itinerante ma molto breve proprio per dedicare la massima attenzione alla qualità fotografica nel rispetto delle norme di Circolazione previste dal Codice della Strada il cui rispetto è fatto comunque obbligo a tutti i Partecipanti ed eventuali infrazioni sono assolutamente da NON imputare nè direttamente nè indirettamente agli Organizzatori.

QUANTO COSTA?

Quote di Iscrizione a persona:

  • 15 euro Easy Card

  • 30 euro vip Card (Maratona accompagnati in mini gruppo da un Coach di riferimento)

Per i primi 200 iscritti si applica un prezzo speciale scontato al 50%!

ISCRIZIONI E LOGISTICA:

La Segreteria della Maratona Fotografica è presso: VISIVA, via Assisi 117, Roma

WEB: http://www.visiva.info/ EMAIL: info@visiva.info

Le iscrizioni sono aperte ON LINE fino al 19 ottobre online dall’apposito form, pagamento con qualsiasi carta credito/debito ma anche presentandosi presso Visiva la Città dell’Immagine in via Assisi 117 Roma

SI VINCE QUALCOSA?

Si, le 30 foto più votate verranno stampate ed esposte a partire dal 27 ottobre presso Visiva.
Le Stampe fine art delle trenta opere saranno offerte e realizzate dal partner FotoSciamanna.

le 3 foto migliori verranno ricompensate con degli OMAGGI forniti dai Partner della Maratona:

Intuos PRO

 

REGOLAMENTO:

Il regolamento è consultabile direttamente sul nostro sito cliccando qui. L’adesione alla Maratona Fotografica prevede l’accettazione completa ed incondizionata del Regolamento.

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The Trip in Mostra a Roma

Questa mostra sembra essere stata fatta apposta per noi di Viaggio Fotografico! Nel nome, nei contenuti e per lo stile… Invece NON ci assumiamo la paternità di questa bellissima esposizione e ne parliamo con la voce di chi l’ha visitata e apprezzata.

Prendiamo uno dei più begli spazi espositivi del mondo, immaginiamo che questo spazio “espone” qualcosa da più di 2000 anni, prima era un mercato ed esponeva merci, ora è una prestigiosissima galleria d’arte che espone opere. Immagina, se non ci sei mai stato, che questo spazio enorme  si affaccia con ampie vedute e terrazzi sui Fori Imperiali, pensa che tra un’opera e l’altra puoi camminare tra le rovine di epoca romana e avere una vista mozzafiato sulla storia, cerca di immaginare infine cosa significa vedere una mostra di arte moderna in uno spazio così antico… Ecco… hai fatto già due viaggi: uno nel tempo e uno con la fantasia. In questo contesto unico al mondo, il terzo viaggio te lo fa fare The Trip Magazine con la sua mostra Travel Routes in Photography.

Vedere una mostra in un contesto del genere è già di per sè un’esperienza straordinaria, aggiungici poi quattro bellissimi progetti fotografici e hai un mix incredibile di emozioni che ti verranno dal visitarla. Simon Norfolk, Elaine Ling, Giancarlo Ceraudo e Cristina De Middel sono i quattro Autori che ci raccontano il loro modo di viaggiare e di vedere il mondo. Lo fanno con il tipico stile della rivista The Trip, un free magazine bellissimo, curatissimo, dalla grafica raffinata di impaginazione diffuso a livello internazionale che viene diffuso anche grazie ad happening strategici come questa mostra, o le serate fatte al Chiostro del Bramante e al MACRO di Roma…

Il primo dei quattro Progetti, di Elaine Ling, ci propone all’ingresso della mostra delle gigantografie sospese con dei bellissimi baobab (giganti anche loro) scattati in grande formato su Polaroid Bianco e Nero a sviluppo istantaneo.

Il secondo lavoro a cura di Giancarlo Ceraudo ci parla di Cuba e di un modo onirico di raccontarla, anche questa in bianco e nero, l’isola caraibica perde i suoi famosi colori per essere vista con un dinamismo particolare dato da inquadrature suggestive, dal mosso e dal probabile uso del lensbabyes per ottenere effetti molto particolari di sfocatura zonale.

Passiamo poi a Cristina De Middel che al primo piano ci propone un ironico, geniale e improbabile viaggio spaziale rievocando una divertente conquista dello spazio da parte dello Zambia, una sorta di Armata Brancaleone alle prese con un’impresa più grande di lei.

Per finire espone Simon Norfolk che riprende delel vecchie fotografie dell’800 fatte dal primo fotoreporter che sia andato a documentare la guerra in Afghanistan e le ripropone oggi documentando come sia cambiato tutto, tranne, purtroppo la guerra che continua a martoriare questo paese.

Abbiamo visitato la mostra con gli Allievi della mia Photo Academy e camminare tra le opere esposte in mezzo ad antichi resti è un viaggio nel viaggio, vorrei suggerire a Te che sei arrivato a leggere fin qui di non perderti questa straordinaria esperienza visiva.

Helmut Newton in mostra a Roma

Il Palazzo delle Esposizioni di Roma ha fatto l’ennesimo grande omaggio alla Fotografia contemporanea, ormai la prestigiosa galleria in via Nazionale ci propone solo emozioni fotografiche di altissimo livello.

Sono andato ieri con i miei Allievi della Photo Academy in visita alla mostra di Helmut Newton, senza dubbio un nome che ha fatto la storia della fotografia anche quando era ancora vivo. Famosissimo e amatissimo da tutti Helmut Newton è sempre stato un personaggio di grande spicco, un divo a tutti gli effetti, parte integrante dello star system che ha sempre raccontato e descritto nelle sue immagini. Newton insomma non è mai stato un osservatore di un certo mondo, non un narratore reporter affascinato dai suoi soggetti, lui raccontava il suo mondo vivendoci dall’interno come suo stile di vita e mostrandoli all’esterno con le sue fotografie come icone di un mondo altrimenti inaccessibile ai più.

Le sue immagini ci raccontano di ville con piscina a Montecarlo, di attici a Manhattan o ai piedi delle Torre Eiffel, lui scattava per lo più in casa di amici o in quelle delle persone che ritraeva o nelle sue case che aveva sparse per il mondo. Le sue location preferite erano le grandi città come Parigi o Berlino, o le ville monumentali del lago di Como… Visioni di vita quotidiana, la sua. Concessioni fatte all’umanità di poter dare uno sguardo ad un mondo abitato da donne bellissime, discinte e disponibili, che vivono in case da film. Quelle di Newton sono delle visioni voyeuristiche di una società occidentale ricca e opulenta, arrogante e trasgressiva. Le donne di Newton sono annoiate, prepotenti, capricciose  e  fisicamente perfette, sono le donne che tutti gli uomini vorrebbero avere ma nessuno vorrebbe sposare, ma sono donne spesso tristi, insoddisfatte, la loro disponibilità è solo  fisica, non morale.

Queste donne si baciano tra loro per noia, perchè vivono da sole in case senza uomini troppo affaccendati a fare altro. Le rare volte che gli uomini appaiono al cospetto di queste donne languide hanno sempre un ruolo subalterno, sottomesso, servile. Ecco quindi uomini baciare manichini o stare con lo sguardo basso, preso da altri pensieri mentre ci sono due donne davanti a lui riflesse nello specchio che amoreggiano tra loro completamente nude. Le donne di Newton arrivano ad interpretare il ruolo dell’altro sesso fino al punto di indossare abiti maschili e a tagliarsi i capelli in un continuo gioco fatto di ruoli e di identità. Gli uomini nel migliore dei casi stanno a guardare o sono schiavi della bellezza femminile.

Le modelle che il grande maestro tedesco sceglie per le sue visioni fotografiche giocano alla cavallina con tanto di frustino tra i denti all’interno di lussuosissime residenze, vestono con vertiginosi tacchi a spillo e ostentano la loro superba bellezza facendone un uso di fortissimo erotismo, mai volgare, mai pornografico. Per primo Newton ha portato il nudo nella fotografia di moda, pubblicizzando gli abiti e gli atelier internazionali con modelle in nudo integrale.

Vedendo la mostra di Roma, con oltre 200 foto tratte da 3 libri che sono stati diffusi in tutto il mondo, si ripercorre la storia della poetica visiva di questo grande artista. L’osservatore poco attento viene immancabilmente rapito dalla bellezza plastica delle modelle che qui vengono usate nel vero e proprio senso letterale del termine per interpretare il loro quotidiano, per quanto questo sia distante dal vissuto comune. Ad uno sguardo più approfondito ci si rende conto di come queste foto abbiano dettato 40 anni fa gli stili della fotografia moderna e contemporanea, di come le sue inquadrature, i suoi tagli e lo stile cromatico che otteneva in camera oscura siano oggi del tutto attuali e gli stessi che cerchiamo di ottenere con gli effetti di Photoshop.

Altra cosa che sconcerta chiunque visiti la mostra di Newton al Palazzo delle Esposizioni di Roma è la vastità e la quantità delle opere esposte oltre che il loro allestimento. La sezione dei Big Nudes è quella che mi ha di più affascinato, qui le donne appaiono nelle gigantografie stampate a dimensione naturale in una sorta di ricostruzione “in copia dell’originale”. Le ragazze diventano cloni di sè stesse in scala 1:1 e la loro giovane bellezza viene consegnata all’immortalità della fotografia mediante la conservazione eterna del negativo fotografico.

 

Per saperne di più:

Consultare il sito del Palazzo delle Esposizioni di Roma: http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-helmut-newton Apertura al pubblico fino al 21 luglio 2013.

 

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